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Il crollo (annunciato) dei 5 Stelle e le strade per ripartire. La lezione del prof. Calise

Il Movimento 5 Stelle “deve imparare a fare il partito, perché la soluzione Grillo-Casaleggio che è stata geniale in passato ha funzionato per tre anni, ma non è più sufficiente”. Le elezioni in Emilia Romagna e Calabria hanno restituito agli osservatori un risultato univoco, da qualsiasi lato lo si guardi: la forza politica guidata fino a pochi giorni fa da Luigi Di Maio è in piena crisi, e non si sa se e come potrà uscirne. Secondo Mauro Calise, professore di Scienza Politica all’Università di Napoli Federico II, raggiunto telefonicamente da Formiche.net M5S ha pagato il non aver saputo procedere con una organizzazione interna che facesse da filtro nella selezione della classe dirigente, a causa anche di uno dei cavalli di battaglia grillini: il limite dei due mandati. Ora, per ripartire, è necessario abolirlo e portare avanti una strutturazione partitica meno evanescente.

Professore, una prima impressione sul crollo del Movimento 5 Stelle?

Il crollo è come il titolo di un libro di Garcia Marquez: “Cronaca di un crollo annunciato”, nel senso che il Movimento 5 Stelle paga il prezzo di una strutturazione partitica estremamente fragile. I partiti sono delle organizzazioni, invece qui a furia di guardare gli indici di consenso e il numero dei voti ci si dimentica che se poi non c’è una macchina che funziona si sfascia tutto.

Facciamo un passo indietro, allora…

I 5 Stelle sono partiti a raffica perché hanno avuto il combinato disposto di due personaggi geniali, uno dei più grandi comunicatori italiani, cioè Beppe Grillo con una grande esperienza politica, cosa che in genere i comunicatori non hanno, e un personaggio di grande lungimiranza informatica che è Gianroberto Casaleggio. Loro due si sono inventati un partito cybercratico molto centralizzato, con meccanismi di selezione stringenti e un numero di partecipanti notevolmente più basso rispetto ai partiti nazionali.

Un binomio vincente?

Ecco, tutto questo nella parte di avvio del Movimento e di conquista del potere ha funzionato benissimo, mentre nella fase della gestione  – ossia quando i vari esponenti iniziano ad occupare posti di potere – ci voleva qualcuno che facesse il vigile e regolasse il traffico. Hanno lasciato il compito a Casaleggio, con l’ausilio della piattaforma Rousseau che più che regolare il traffico ha regolato qualche voto referendario, ma il vero problema, ossia come la partecipazione digitale si struttura poi in un meccanismo decisionale, è rimasto aperto.

Ci spieghi meglio.

Dal punto di vista della costruzione della macchina, che resta il vero nodo per spiegare l’ascesa e il declino dei partiti, loro si sono fermati a sette anni fa. Nel frattempo è cambiato tutto. Sono passati dall’opposizione al governo, e la posta il gioco è passata dal dare una spallata al sistema al procurarsi una poltrona da qualche parte, con un meccanismo folle che è quello dei due mandati, che andava benissimo nella fase ideologica, ma non nella fase di strutturazione istituzionale del partito.

Un vincolo troppo stringente?

Sì. Significa che dopo 10 anni che ti fai un cuore così a lavorare per la causa dando pure soldi indietro al partito, hai la certezza di tornare a casa a fare il ferroviere o il disoccupato. Ecco, è un meccanismo che non può funzionare. Aggiungo poi che nel momento in cui Grillo ha fatto un passo indietro nominando dall’alto un capo politico plenipotenziario questo non aveva l’elemento fondamentale che ha caratterizzato Grillo, ossia il carisma. Di Maio non ce l’aveva. Non contento ha ricoperto troppi ruoli contemporaneamente: capo politico, vicepremier, ministro dello sviluppo economico e del lavoro. Neanche Nembo Kid ce l’avrebbe fatta.

Quindi?

Quindi loro hanno preparato questo disastro sul terreno più elementare, quello della costruzione di una macchina ordinata di governo, che ha portato poi alla selezione di candidati molto, troppo fragili come quelli di Emilia-Romagna e Calabria.

Di Maio era contrario a presentarsi in Emilia-Romagna e Calabria, ma Rousseau ha deciso che invece si corresse lo stesso…

Questo significa però che Di Maio non ha voluto imporre la sua decisione, ma l’avrebbe potuto fare. Se ne è un po’ lavato le mani, perché l’altra scelta avrebbe significato un accordo con il Pd ed era quello che Di Maio non voleva. È chiaro che Di Maio di fronte a scelte politiche complesse è venuto meno. Il minimo che possa succedere in una forza politica come M5S che si basa su Rousseau, è che quando hai una scelta politica così difficile da prendere o imponi la tua scelta e paghi un prezzo ma segui una strategia, oppure ti accontenti di quello che i pochi votanti nella piattaforma decideranno per te.

Cosa avrebbero dovuto fare?

Loro in questa hubris del potere che subito dopo le elezioni del 2018 li ha inevitabilmente inebriati avrebbero dovuto perlomeno scindere lucidamente il ruolo di costruzione del partito da quello di gestione del governo, ma non l’hanno fatto.

Gli stati generali di marzo potrebbero andare in questa direzione?

Loro adesso devono tentare di andare verso una strutturazione più partitica, ma non è un’impresa semplice. Certo, può ancora dare spazio a un partito del 10% che di questi tempi non è poco, però devono farlo sapendo che si va alla ricerca dello zoccolo duro di un tempo e poi una leggera ripartenza, con la consapevolezza che è una strada in salita e che devono adottare alcuni principi sacrosanti, il primo dei quali è che non puoi mandare a casa le persone dopo due mandati.

L’abolizione dei due mandati è fondamentale?

È il primo passo. Pagherebbero un dazio d’immagine, ma aprirebbero la strada al professionalismo politico di cui hanno maledettamente bisogno, che la Lega e il Pd invece hanno.

Durante il Conte I si diceva che la Lega aveva cannibalizzato i consensi dei 5 Stelle. Ora con il Conte II sta succedendo lo stesso con il Pd?

Il bottino elettorale dei 5 Stelle veniva per un terzo da destra, per un terzo da sinistra e per un terzo da astensione e liste civiche. Salvini si è ripreso rapidamente il terzo che apparteneva alla destra, e già questo avrebbe dovuto spiegare a Di Maio che ormai da quel lato i buoi erano scappati ed era giunto il momento di avviare un’alleanza competitiva con il Pd, un modo per dire chiaramente alla parte degli elettori che proveniva dalla sinistra che c’era un terreno comune, restate con noi insomma. Ma questa scelta non c’è stata.

Ci ha guadagnato il Pd, allora?

Il Partito democratico non è che si sia ripreso molti voti, però ha sicuramente tenuto botta, però perché c’era un insediamento territoriale che viene da molto lontano, da 70 anni di storia e anche in Calabria non è andato malissimo.

Questo crollo dei 5 Stelle mette a rischio il governo?

Adesso credo di no, sono tutti così spaventati del baratro che viene dopo che non credo si debba temere. Certo, bisogna capire se riusciranno a mettere un po’ d’ordine nel loro caos interno. Hanno un gruppo dirigente che sta implodendo, una struttura organizzativa tutta da costruire, però se come credo il governo tiene hanno tempo per lavorare bene. Devono imparare a fare il partito, perché la soluzione Grillo-Casaleggio che è stata geniale in passato ha funzionato per tre anni, ma non è più sufficiente. Ora è tempo di vedere cosa riusciranno a organizzare.


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