La nuova legge sull’export varata da Pechino non coglie impreparati Stati Uniti, Europa e Australia. In cantiere progetti, alleanze e tante ambizioni per scrivere un futuro più tech, green e sostenibile senza il cappio delle forniture strategiche dalla Cina. E Biden si prepara a sfidare l’ala radicale dem sui minerali strategici
La corsa è appena iniziata, ma è già possibile fotografarne le prime istantanee. Si tratta di un nuovo capitolo della competizione internazionale, che vede sempre di più Europa e Stati Uniti impegnati a svincolarsi da una pericolosa e inaffidabile dipendenza dalla Cina e dalla rete delle sue supply chain: quella sui metalli rari, necessari per la manifattura di prodotti cruciali per la transizione energetica e digitale.
Nei giorni scorsi la notizia che Pechino aveva introdotto una nuova legge per il controllo sulle esportazioni in nome della sicurezza nazionale, come raccontato da Formiche.net, ha immediatamente scosso gli animi a Bruxelles e a Washington. Con il pericolo che la Cina possa, per motivazioni interne e in risposta alle mosse dell’amministrazione Trump, potenzialmente decretare severe limitazioni o un vero e proprio embargo sulle esportazioni delle terre rare e di altri importanti metalli.
Di fronte a questo scenario, Europa e Stati Uniti rincorrono. C’è la necessità di diversificare le importazioni, accorciare le supply chain e, laddove possibile, aprire nuovi siti d’estrazione. Iniziative che secondo le ultime stime di un rapporto di Wood Mackenzie dovranno raggiungere il trilione di dollari di investimenti nei prossimi 15 anni per soddisfare il crescente appetito di metalli delle rinnovabili. Un’urgenza che imporrà agli investitori soprattutto un cambio di paradigma. “I ritorni di lungo periodo dall’investimento nell’attività mineraria e di processazione si scontrano con il bisogno di dividendi certi e regolari o di guadagni di breve periodo che possono essere garantiti da altri asset più popolari”, ha commentato Julian Kettle, vicepresidente per Metals & Mining della compagnia. “Questo ostacola fortemente la capacità dei board di prendere le necessarie iniziative per sviluppare quell’offerta che l’ampia crescita delle commodity della transizione energetica richiede”. Si tratta di un problema di visione strategica, tanto nel pubblico quanto nel privato. Ma qualcosa sembra muoversi in questa direzione.
IL CAMBIO DI PASSO DELL’EUROPA…
Se c’è una lezione che la pandemia da Covid-19 ha insegnato, questa è la nuova consapevolezza sulle vulnerabilità più scoperte nei confronti della Cina. Il cambio di passo UE sul tema lo aveva certificato il commissione al Mercato interno Thierry Breton lo scorso settembre con parole lapidarie: “L’era di un’Europa conciliante e naif è finita”. Poche settimane dopo, insieme al suo alfiere Maros Sefcovic, vicepresidente della Commissione, veniva formalizzata l’European Raw Materials Alliance che, in concerto con l’European Battery Alliance ideata dallo stesso Sefcovic tre anni prima, si pone l’obiettivo di garantire al continente la sua open strategic autonomy per coltivare le ambizioni di un’Europa sovrana, competitiva e leader nella riconversione “verde” dell’economia.
Alla base una visione più realistica e geopolitica. L’Unione europea non potrà raggiungere la neutralità climatica senza materie prime critiche come litio e le terre rare, ha spiegato Sefcovic in un’ampia intervista rilasciata a Euractiv. Non solo, perché tale questione “non è soltanto legata alle ambizioni verdi dell’Europa, ma anche alla nostra strategia digitale” dal momento che “l’intero ecosistema industriale” che utilizza tecnologie all’avanguardia, dall’aerospazio, alle costruzioni, all’automotive e alle industrie a basse emissioni, “dipende fortemente ad un accesso sicuro a questi materiali strategici”. Proprio in questa direzione, l’implementazione del concetto di open strategic autonomy, ha proseguito Sefcovic, “provvederà alla nostra economia rifornimenti adeguati e diversificati di materie prime e secondarie in modo tale da assicurarci di poter prendere le nostre decisioni”. Non rigettando il libero e mercato, ma pretendendo “reciprocità” nei rapporti commerciali – soprattutto con la Cina – e allo stesso tempo monitorando “quale tipologia di metalli critici abbiamo qui in Europa”. Senza dimenticare la necessità di impianti di processazione dei materiali, o di riciclo dei materiali tramite urban mining.
Per garantire al continente l’integrazione verticale delle supply chain – mine-to-magnet – e rimanere competitivo sul piano industriale “il ruolo di supporto della Banca europea per gli investimenti sarà cruciale” e già ha catalizzato, come nel caso delle batterie, 60 miliardi di euro, facendo dell’Europa “un vero e proprio hub per gli investimenti nel settore”. La Commissione europea inoltre, come ricorda Sefcovic, sta preparando un nuovo regolamento per assicurare che tutte le batterie in Europa siano “le più verdi, sicure e sostenibili del pianeta”, incluse quelle importate nell’eurozona. Tema che non potrà che scaldare le relazioni con Pechino, già il principale produttore mondiale. “Siamo il loro primo partner commerciale, loro il nostro secondo”, chiarisce il vicepresidente della Commissione europea, tuttavia, su questo dossier dei metalli, “credo che sia naturale accorciare le catene del valore, ridurre l’impronta di carbonio e assicurarci che le forniture non vengano interrotte”.
NUOVE E VECCHIE PARTNERSHIP OLTREOCEANO
Dall’altra parte dell’Atlantico gli Stati Uniti, insieme ai governi di Australia e Canada, hanno siglato un memorandum d’intesa con i rappresentanti di Perù e Botswana per includere i due Paesi all’interno del dell’Energy Resource Governance Initiative. Si tratta di un progetto lanciato nel 2019 e che aveva accolto fino ad ora Argentina, Congo, Namibia, Filippine e Zambia, in aggiunta ai paesi fondatori. L’obiettivo è quello di raccogliere partner commerciali per diversificare le forniture dei metalli rari, in un contesto che possa promuovere una governance trasparente del settore, le best practice e le condizioni più eque per gli investimenti. I Paesi firmatari hanno riconosciuto l’incremento esponenziale della domanda globale nei prossimi anni, e il memorandum, come si legge in una nota diffusa dal dipartimento di Stato americano, getterà le basi per una cooperazione multilaterale per rispondervi adeguatamente.
Tra i player che potranno giocare un ruolo chiave per le forniture globali ci sarà sicuramente Lynas Corporation. L’azienda, la più grande produttrice di terre rare fuori dalla Cina, ha di recente rinnovato il suo impegno a mitigare il monopolio di Pechino (oltre l’80% delle quote globali) con le parole del suo amministratore delegato Amanda Lacaze, con la produzione che ha ripreso le quote dopo un parziale stop degli ordinativi a causa della pandemia. Lynas ha inoltre da qualche mese avviato con il Pentagono una partnership per aprire un sito di processazione di alcune terre rare (le heavy-rare earth elements, cruciali per le applicazioni militari) in Texas.
JOE BIDEN ENTRA IN CAMPO…
Nel frattempo, la campagna presidenziale, all’ultimo giro di boa, entra prepotentemente sul tema. Come riporta Reuters, Joe Biden avrebbe promesso di supportare i minatori per il reshoring di importanti stadi produzione e processazione di litio, nickel e terre rare cruciali per la sua strategia sulle rinnovabili e il contrasto al climate change. Quello del reshoring è un cavallo di battaglia dell’amministrazione Trump, che nell’ultimo anno ha fortemente spinto per rilanciare il settore industriale legato ai metalli rari con una forte retorica anti-cinese, come dimostra l’executive order firmato qualche settimana fa che ha dichiarato l’emergenza nazionale. Si tratta tuttavia di un tema fortemente bipartisan, come dimostrano le ultime iniziative al Congresso, ma che sarà inevitabilmente declinato in modalità diverse a seconda di chi siederà alla Casa Bianca dal prossimo gennaio. “Un’amministrazione Biden enfatizzerebbe l’energia pulita, e in funzione di avere più pannelli solari servono più materiali”, oltre a rilanciare gli investimenti – circa due trilioni di dollari in infrastrutture – per sostenere il settore delle auto elettriche. Ma a differenza di Trump, Biden sarebbe più deciso a rilasciare i permessi e le licenze federali per l’apertura di nuovi siti. Rischiando di attirare contro di sé l’ala più ambientalista del partito democratico a ridosso del 3 novembre.