Oltre alla pur significativa e a tratti imprescindibile aneddotica, sono numerose le lenti attraverso cui guardare alla vita di Gianni Agnelli, figura indimenticata e indimenticabile del Novecento italiano, nato esattamente 100 anni fa a Torino e morto nel gennaio del 2003 sempre nel capoluogo piemontese. Formiche.net lo ha ricordato in questa conversazione con la firma del Sole 24 Ore e scrittore Paolo Bricco
L’attore geopolitico. L’imprenditore con i piedi ben piantati nel suo Paese e lo sguardo rivolto verso l’Europa e gli Stati Uniti. L’icona culturale internazionale che ha sempre fatto dell’origine italiana e piemontese dell’industria di famiglia un elemento imprescindibile. L’uomo delle istituzioni e di Confindustria con la quale la Fiat ebbe durante i suoi anni un rapporto privilegiatissimo.
CENT’ANNI FA NASCEVA GIANNI AGNELLI. LE FOTO DI PIZZI E UN RICORDO DI LAPO
Oltre alla pur significativa e a tratti imprescindibile aneddotica, sono numerose le lenti attraverso cui guardare alla vita di Gianni Agnelli, figura indimenticata e indimenticabile del novecento italiano, nato esattamente 100 anni fa a Torino e morto nel gennaio del 2003 sempre nel capoluogo piemontese. Formiche.net lo ha ricordato in questa conversazione con la firma del Sole 24 Ore e scrittore Paolo Bricco, in queste settimane in libreria con il saggio dal titolo “Cassa Depositi e Prestiti. Storia di un capitale dinamico e paziente. Da 170 anni” edito da Il Mulino (qui un estratto sul nostro giornale), che nei giorni scorsi ha dedicato all’avvocato un imperdibile approfondimento.
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Ad avviso del giornalista del Sole, la vicenda personale e imprenditoriale dello storico presidente della Fiat va rievocata e rivissuta attraverso quattro chiavi di lettura principali: geopolitica, geo-industriale, politica ed economica, culturale. A cominciare dalla sua funzione nelle relazioni tra Italia e Stati Uniti: “Agnelli fu uno dei fondamentali elementi di raccordo che consentirono al nostro Paese di ottenere più dignità di quanto molti circoli americani avrebbero desiderato che ricevesse”. D’altronde – ha ricordato l’inviato del quotidiano economico – l’Italia del regime fascista, alleata della Germania e del Giappone, uscì sconfitta dalla seconda guerra mondiale. Eppure, nonostante la maggiore severità invocata da molti negli States, venne trattata con pari dignità rispetto ai vincitori europei anche per via del ruolo dell’avvocato, che fu “uno dei grandi fluidificatori di questa intesa geopolitica”.
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In quest’ottica Bricco ha ricordato come nel sistema precedente alla caduta nel 1989 del Muro di Berlino – diviso tra comunismo da un lato e democrazie occidentali dall’altro – Agnelli rappresentasse quest’ultime in modo esemplificativo, grazie anche al suo carisma e alla sua iconicità: “Anche nella dimensione per così dire appariscente c’è stato un connubio molto stretto con gli Stati Uniti. Penso ai ritratti che Andy Warhol dedicò a lui e a sua moglie Marella oppure alle fotografie in barca con John Fitzgerald Kennedy nella baia di Boston. E, ancora, a quelle di Henry Kissinger, allo stadio comunale di Torino, mentre assistono insieme alla partita della Juventus”.
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Connessione a tutto tondo, fortissima anche sotto il profilo industriale o per meglio dire, secondo Bricco, geo-industriale: “Mi riferisco alle sua convinzioni, oserei definirle quasi laicamente religiose o religiosamente laiche, sulla funzione dell’industria, sulla sua missione storica, sull’impresa come fondamentale cellula sociale”. Una prospettiva in qualche modo acquisita da una tradizione comune alle classi dirigenti occidentali del novecento: “Le grandi élite europee e americane credevano profondamente in questa visione. Agnelli parlava quello stesso identico linguaggio. Il novecento è stato il secolo del fordismo e del taylorismo, a Detroit come a Torino”. All’epoca dell’avvocato unite soprattutto da questo comune terreno di coltura, che è diventato qualcosa di molto più profondo negli anni di Sergio Marchionne: “E’ qualcosa di incomparabile. Dopo la morte di Agnelli, la Fiat si è di fatto svuotata industrialmente in Italia e ha ripreso forma attraverso l’acquisizione nel 2009 di Chrysler che poi ne ha mutato in profondità la fisionomia. Così tanto da far quasi pensare che Marchionne sia stato più il fondatore di una nuova impresa che non l’amministratore delegato di un’azienda con una storia secolare”.
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La cifra politica dell’avvocato, ad avviso di Bricco, è testimoniata, tra gli altri, anche dai suoi due anni alla guida di Confindustria, di cui Fiat è stata una componente essenziale e determinante fino all’uscita decisa guarda caso proprio da Marchionne, durante i quali, nel 1975, arrivò a siglare con i leader sindacali – tra cui brillava alla guida della Cgil Luciano Lama – l’accordo sulla cosiddetta scala mobile: “In linea con una convinzione pienamente novecentesca ed europea, anche Agnelli riteneva che potessero esservi grandi soluzioni sistemiche e conciliative di ricomposizione degli interessi per sanare i conflitti sociali e del lavoro, anch’essi fortissimi”. E quindi la scala mobile, che venne poi superata dal decreto di San Valentino di Bettino Craxi con cui si decise di smontare quel meccanismo perché causa di eccessiva inflazione. “Una vicenda fortemente simbolica, anche nell’errore”, ha commentato Bricco, secondo cui quell’episodio “indica appunto la natura pienamente novecentesca di Agnelli”. “Il suo è stato un codice completamente diverso dagli standard attuali ma, proprio perché così differente, risulta oggi ancora più prezioso”, ha sottolineato ancora il giornalista.
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E infine, ma certo non perché meno importante, la cifra culturale applicata all’impresa. Ovvero, secondo Bricco, l’inestricabile legame che, ad avviso di Agnelli, esisteva “tra l’interesse dell’azienda e l’interesse della nazione”. Per lui “Fiat voleva dire davvero Fabbrica Italiana Automobili Torino”. Dunque, la connessione con Torino e con l’Italia come elemento assolutamente identitario: “Dentro quel nome c’era tutto. E infatti alla fine degli anni novanta, quando pure le condizioni della Fiat non erano buone, Agnelli rifiutò sempre di cedere il controllo dell’impresa a qualche azienda straniera”. A conferma definitiva che Agnelli è stato davvero un interprete magistrale del suo tempo, il novecento: “Il secolo delle radici nazionali e, al tempo stesso, della più spiccata internazionalità”.