La politica di difesa italiana ha ormai identificato nel Mediterraneo allargato l’area prioritaria per la sicurezza nazionale. Che cosa ha portato l’Italia a rivedere le proprie scelte? L’analisi di Fabrizio Coticchia, professore di Scienza Politica all’Università di Genova
Il dibattito relativo ai temi della politica estera si è ultimamente incentrato sia sulle parole di Mario Draghi sul presidente turco Recep Tayyip Erdogan (e a sui silenzi in merito al caso di Patrik Zaki), nonché sul presunto ruolo giocato dal presidente del Consiglio nell’accrescere il prestigio internazionale all’Italia all’interno del contesto europeo e con Washington. Ma, al di là della comprensibile attenzione riservata ai primi “due cerchi” tradizionali di riferimento per la politica estera italiana, è opportuno soffermarci sulla crescente centralità giocata dal “terzo cerchio”, quello mediterraneo, definito di recente “terzo cerchio e mezzo”, data la profondità della proiezione nazionale in Sahel e, in generale, nel continente africano.
L’arrivo delle forze speciali italiane in Sahel per la missione Takuba, le recenti parole del ministro Lorenzo Guerini in commissione Difesa, il fragile scenario politico-diplomatico della Libia, i rinnovati rapporti con gli alleati, e il viaggio del ministro degli Esteri Luigi Di Maio in Mali rappresentano tutti aspetti che rafforzano l’esigenza di capire motivazioni e caratteristiche della politica estera e di difesa italiana nel Mediterraneo allargato. Ciò appare ancora più pressante alla luce dell’annunciato ritiro dall’Afghanistan, altro tema incredibilmente “ignorato” da buona parte dei media nostrani nonostante la rilevanza (e la drammaticità) dell’impegno ventennale nel Paese.
La politica di difesa italiana ha ormai identificato nel Mediterraneo allargato l’area prioritaria per la sicurezza nazionale. Che cosa ha portato l’Italia a rivedere le proprie scelte? Dal Libro bianco del 2015 in poi, i documenti ufficiali e le dichiarazioni pubbliche hanno fatto spesso riferimento a un “ri-orientamento strategico” verso il Mediterraneo. Siamo davvero di fronte ad una svolta per la politica di difesa italiana?
Il punto di partenza per rispondere a queste domande è il percorso di trasformazione della politica di difesa italiana nell’ultimo decennio, caratterizzato – da un lato – da una graduale diminuzione (dal 2009 in poi) della presenza internazionale delle forze armate e – parallelamente – da un loro parziale “ricollocamento” verso un’area ritenuta chiave per la sicurezza nazionale: dalla Libia al Niger, dal Golfo di Guinea al mar Mediterraneo. Anche nel luglio 2020, infatti, il parlamento ha approvato nuove operazioni in questa regione.
È complesso valutare il mutamento in politica estera. La letteratura di Foreign policy analysis ha evidenziato alcuni “livelli di cambiamento”: dal simbolico “aggiustamento” nell’intensità del coinvolgimento alla trasformazione di mezzi e scopi, fino al (raro) ri-orientamento complessivo delle scelte internazionali.
Forse è presto per parlare di una “svolta” per la politica estera e di difesa italiana ma la portata del cambiamento, anche per strumenti e fini, è considerevole. Sebbene il Mediterraneo sia da sempre un ambito geografico cruciale per la politica estera e di difesa italiana, è con il Libro bianco del 2015 che il “mantenimento della stabilità nelle aree incidenti sul Mare Mediterraneo” rappresenta – dopo la difesa dello stato e la salvaguardia delle istituzioni – la principale missione delle forze armate. Il dato interessante è che tutti i governi che si sono succeduti dal 2015 in poi hanno sposato questa visione. Per esempio, l’allora ministro della Difesa Roberta Pinotti affermava nel gennaio 2018 la volontà di “concentrare le nostre risorse verso le aree di crisi dove più immediati sono gli effetti diretti sugli interessi strategici di sicurezza dell’Italia”. “Il cuore” dei nostri interventi diventava così “il Mediterraneo allargato, dai Balcani al Sahel al Corno d’Africa”. Una definizione ampia, che comprende territori bagnati dal Mediterraneo, dal Medio Oriente ai Balcani fino al Sahel.
La rimodulazione della nostra presenza militare nella regione è stata condivisa anche dal governo gialloverde: le forze politiche che si erano astenute (come la Lega) o si erano opposte (come il Movimento 5 stelle) alle operazioni militari in Libia e Niger avviate da Paolo Gentiloni, hanno invece supportato – una volta al potere – tutti gli interventi programmati nell’area. Anche il “Conte II” ha condiviso e ampliato tale processo, avviando nuove operazioni, da Takuba in Sahel alle operazioni navali nel Golfo di Guinea e nel Mediterraneo (Irini). Anche nell’“Atto di indirizzo” pubblicato dal ministero della Difesa nel 2020 si ribadisce come la stabilità del Mediterraneo allargato rappresenti “un’esigenza vitale per il nostro Paese” nonché l’area di “primario interesse strategico”. A inizio aprile, il ministro Guerini ha evidenziato di fronte alla commissione Difesa come la presenza nella regione (definita come un “triangolo”, con il Sahel al centro, che va da Corno d’Africa a Golfo di Guinea fino alla Libia) sia fondamentale per l’Italia per “salvaguardare la sicurezza e per protezione degli interessi nazionali minacciati da fenomeni di instabilità della fascia sub-sahariana”. In altre parole: “gli indirizzi prioritari della sicurezza nazionale italiana si collocano nel Mediterraneo allargato”.
Nonostante alcune eccezioni (come i deputati del Partito democratico e di Liberi e uguali che si sono opposti nel luglio 2020 alla missione di addestramento della guardia costiera libica), la politica italiana ha quindi sostenuto in modo bipartisan tutti gli interventi militari nella regione.
Assieme alla necessità di garantire la sicurezza energetica (sia nel Golfo di Guinea sia nel Mediterraneo orientale, dove la possibilità di sfruttamento delle risorse energetiche è condizionata dal contenzioso fra Cipro e Turchia), la lotta al terrorismo e all’immigrazione irregolare rappresentano infatti i due obiettivi centrali della difesa italiana nell’area. Dopo anni nei quali le forze armate italiane sono state impiegate dovunque, la politica di difesa italiana ha deciso di focalizzare le proprie risorse in un’area specifica, proprio per contrastare – con le parole del Libro bianco – quei fattori d’instabilità quali “migrazioni di massa, di traffici illeciti e di penetrazione di affiliati al terrorismo internazionale”.
La ricerca ha evidenziato come il contrasto all’immigrazione clandestina risulti (a prescindere dalla sua effettiva portata) la principale preoccupazione condivisa tra parlamento ed esecutivo (nonché da larga parte dell’opinione pubblica).
Cosa è stato fatto in concreto sul campo? Dal punto di vista della politica estera, l’Italia ha rafforzato l’azione della diplomazia, ampliando la rete di relazioni con gli attori locali (per esempio aprendo nuove ambasciate in Sahel). Roma ha poi destinato alla regione – in particolare al Niger – la buona parte dei fondi della cooperazione riservati all’Africa. Dal punto di vista della difesa è possibile identificare alcune attività ricorrenti nelle numerose operazioni (circa una ventina) bilaterali e multilaterali dislocate nel Mediterraneo allargato: l’addestramento e l’assistenza (advising e mentoring) alle forze armate e di polizia locali – comprese le forze speciali – impegnate sul campo nel contrasto a gruppi criminali o jihadisti; la lotta alla pirateria (nel Golfo di Guinea e nel Corno d’Africa); la protezione degli assetti energetici nella acque della regione; il contrasto al traffico di essere umani e il controllo del rispetto dell’embargo di armi nel Mediterraneo.
Come testimoniano i documenti ufficiali e il dibattito parlamentare, lo scopo prioritario delle operazioni nel Nord Africa e Sahel è rafforzare le capacità degli attori statuali locali al fine di garantirne sicurezza e stabilità, proteggendo così l’Italia dalle minacce che qui possono sorgere. Sebbene sia presto per trarre delle valutazioni complessive rispetto ai risultati raggiunti, il giudizio relativo alla “nuovo direzione” della difesa italiana nel Mediterraneo allargato non può essere pienamente roseo.
Certamente è positivo che dopo due decenni di impegno militare oltre confine in-ogni-singola-crisi-internazionale, la difesa italiana abbia attribuito una chiara priorità a una regione e poi, coerentemente (avverbio ahimè raro in materia), abbia rimodulato la presenza militare all’estero attraverso un “riposizionamento strategico” nel Mediterraneo allargato.
Il problema deriva dal fatto che – dati gli obiettivi di “stabilizzazione” – le scelte della politica difesa italiana nell’ultimo lustro si sono rivelate talvolta contradditorie. L’instabilità che regna ancora nella regione non rappresenta un bel segnale.
Al di là dei tentennamenti della diplomazia nazionale su temi specifici (come la Libia, nella quale il governo gialloverde ha cercato una controproducente equidistanza tra Bengasi e Tripoli), a preoccupare maggiormente è il gap tra ambizioni ed effettive risorse impiegate (a meno di essere gli Avengers, un numero limitato di effettivi non può garantire processi di capacity building), nonché il tipo di approccio adottato.
La sconfitta del terrorismo e delle organizzazioni criminali non passa infatti solo dalla componente militare ma dipende dal dimensione politica, economica e sociale. Questo aspetto è stato di recente ribadito proprio dal ministro Guerini in parlamento, auspicando un “salto di qualità dell’impegno europeo con un focus rivolto non solo alla dimensione militare ma anche a quella istituzionale e politica”. L’idea (spesso colpevolmente condivisa dall’Unione europea) di un supporto “tecnico” agli Stati “fragili” della regione è destinata inevitabilmente a fallire se non viene presa adeguatamente in considerazione la natura politica dei problemi che i governi dell’area – non certo campioni della democrazia – si trovano ad affrontare. Analogamente, la ricerca ha dimostrato ampiamente come un approccio unicamente securitario sia perdente nella lotta al business dell’immigrazione clandestina, al di là delle considerazioni di tipo umanitario, da alcuni anni – si pensi ai campi di prigionia in Libia – messe in soffitta da una larga fetta della politica nazionale.
Infine, se il Libro bianco evidenzia la necessità di garantire stabilità e sicurezza nella regione per la “tutela degli interessi vitali o strategici del Paese”, è lecito chiedersi quali siano effettivamente gli interessi nazionali in gioco. La risposta a questa domanda non è chiara, anche perché il concetto stesso di interesse nazionale è stato in pratica rimosso – per motivi storici e politici – nel dibattito pubblico. Ma i documenti della difesa dovrebbero essere informati sulla base dell’identificazione di interessi vitali da proteggere e perseguire. Nel Paese manca più che altro un dibattito pubblico collettivo sui temi della difesa, una premessa fondamentale affinché la politica possa adottare decisioni coerenti e lungimiranti, nel Mediterraneo allargato e oltre.
Fabrizio Coticchia è professore di Scienza Politica all’Università di Genova, dove insegna Foreign Policy Analysis, Security Studies e Comparative Politics. La sua ricerca riguarda in particolare l’evoluzione della politica estera e di difesa italiana. Il suo ultimo libro (con Jason Davidson, Lexington 2019) esamina la politica estera del governo Renzi