Il primo luglio uno degli ultimi baluardi del marxismo compie un secolo. A Pechino si festeggia, ma il Dragone rosso se la passa male tra agonia dei giganti di Stato, crociata contro il fintech, insolvenze delle imprese e una Via della Seta a rischio smottamento. E poi il Cai, l’addio a Bitcoin… Un Paese che sembra invincibile, ma non se visto da vicino
Un secolo di storia e tanti, forse troppi, problemi. Il Partito comunista cinese, uno degli ultimi baluardi del marxismo e del socialismo reale rimasti nel mondo (l’altro bastione è Cuba ormai orfana dei Castro) compie 100 anni di storia. Eppure, nonostante un secolo farcito di rivoluzioni, dittature, contro-rivoluzioni e aperture al mercato, non si può certo dire che il Dragone goda di ottima salute, come raccontato in questi mesi da questa testata.
A Pechino, comunque, i 100 anni del Pcc sono affare di Stato. Allo stadio nazionale, il nido dei Giochi Olimpici del 2008, alla presenza di circa 20 mila persone, tra cui il presidente Xi Jinping e il vertice del partito, è andata in scena la prima grande esibizione autocelebrativa del regime di Pechino. Si è trattato del primo appuntamento di massa nell’ambito dei festeggiamenti programmati per i 100 anni della fondazione del Partito comunista cinese (1 luglio 1921). Tanta forza esibita che però nasconde un’anima fragile.
LA DITTATURA DEL DEBITO
Il primo problema della Cina è oggi, ancor prima della crisi demografica (Pechino ha clamorosamente aperto alla possibilità di avere tre figli per famiglia), il debito pubblico. Un nemico insidioso e strisciante, capace di contaminare l’intera economia, la seconda del Pianeta, fino a impedirne una crescita su livelli pre-pandemici. I numeri non devono ingannare. Una crescita del 18,3% solo nel primo trimestre 2021, a pandemia ancora in pieno corso, potrebbe fare pensare a una nazione immune da qualunque recessione. E invece no.
Oggi il rapporto tra il “core debt” cinese e il Pil sfonda con disinvoltura il 250% come dimostrano gli ultimi calcoli della Bank of international settlements pubblicati da Cnbc. Un simile stock non può non avere ripercussioni sulla finanza domestica, centrale o periferica che sia.
Lo dimostra la progressiva perdita di credibilità del debito cinese agli occhi degli investitori: proprio pochi giorni fa è stato reso noto l’aumento esponenziale dei declassamenti delle obbligazioni societarie cinesi, più che triplicati quest’anno. Al punto che ben 366 obbligazioni corrispondenti ad altrettante imprese sono state declassate nei primi quattro mesi del 2021. Un dato oltre tre volte superiore alle 109 obbligazioni declassate nello stesso periodo di un anno fa e che denota il progressivo deterioramento del debito cinese. Ma non è finita.
GIGANTI DAI PIEDI D’ARGILLA
La manifestazione più drammatica e violenta della crisi del debito è sicuramente la difficoltà dei grandi conglomerati industriali e finanziari cinesi. A cominciare da Huarong, il gestore di Stato del debito sovrano. Una Lehman Brothers cinese, più volte sull’orlo del big bang, dopo la mancata pubblicazione dei risultati 2020, che ha causato un crollo delle azioni, il panico tra gli obbligazionisti e il blocco degli scambi sulla piazza di Shanghai e Pechino dal 1 aprile.
Huarong è ad oggi insolvente verso il mercato per 600 miliardi di yuan, soldi prestati dagli obbligazionisti e ancora non rimborsati. E la situazione non sembra migliorare. Proprio in queste ore, Huarong ha affermato di non poter stimare quando pubblicherà i suoi risultati finanziari del 2020 e ha proposto di ritardare, ancora, la sua assemblea annuale degli azionisti, suscitando nuovi timori sul destino del più grande gestore patrimoniale in difficoltà della nazione e sul rischio che esso rappresenta per la Cina sistema finanziario.
Attenzione, Huarong è in buona compagnia. Anche il gruppo China Evergrande naviga in cattive acque: oppresso dai debiti, per il momento è riuscito a trovare la quadra mettendo da parte 13,6 miliardi di dollari di Hong Kong (circa 1,75 miliardi di dollari) per rimborsare le obbligazioni in dollari statunitensi in scadenza oggi e gli interessi su tutte le obbligazioni offshore. Il gigante del real estate ha dichiarato di non avere obbligazioni quotate in scadenza prima del marzo 2022. Ma dopo il pagamento di 1,45 miliardi di obbligazioni in dollari, Evergrande dovrà ancora onorare circa 17 miliardi di dollari di obbligazioni in circolazione, tutte in debito offshore in dollari. E poi ci sono Anbang (qui lo speciale di Formiche.net di qualche tempo fa), Ping An e molti altri. Ed è sempre colpa del debito.
ALLARME DALLA PERIFERIA
Ma l’allarme rosso del debito non risuona solo nei Palazzi del Partito centenario. Qualcosa non sembra andare nel verso giusto persino negli angoli più remoti della Cina. A migliaia di chilometri di distanza da Pechino, nella lontana provincia cinese ha origine a quello che presto o tardi potrebbe diventare un contagio sistemico, aumentando il tasso di fragilità domestica. Centinaia di piccole e medie imprese sono a un passo dall’insolvenza, e possono portarsi nel baratro le piccole banche locali che prestano denaro ai territori. E si sa, quando le banche cominciano a fallire, non è mai un buon segnale.
Secondo Standard&Poor’s, “la performance delle banche rurali è altamente correlata alla forza delle piccole e medie imprese, che sono più vulnerabili durante i periodi di recessione. Quasi il 18,5% delle piccole imprese cinesi ha chiuso nel 2020, rispetto al 6,7% nel 2019”. La maggior parte delle banche commerciali rurali prestano denaro alle piccole imprese che potrebbero avere difficoltà a prendere in prestito da grandi banche. Circa la metà dei prestiti delle banche commerciali rurali sono a privati e per mutui, mentre il 20% della loro esposizione è al settore manifatturiero.
VIA DELLA SETA A RISCHIO FRANA
I guai cinesi valicano anche i confini nazionali. Alla voce Via della Seta, si rischia lo smottamento su larga scala. Il problema? I Paesi in via di sviluppo, soprattutto africani, profondamente indebitati con Pechino ma impossibilitati a restituire i prestiti concessi per finanziare le grandi infrastrutture in loco.
Ne sanno qualcosa il Kenya, il Congo e la Tanzania, a cui la natura di questi prestiti (clausole opache, veri e propri trabocchetti) ha fatto non pochi danni (in caso di insolvenza Pechino può ipotecare segmenti interi di industria locale). Tuttavia, un boomerang visto che l’insolvenza dei governi africani (ma c’è anche il Laos e il Pakistan) ha nei fatti impedito alle grandi banche finanziatrici di rientrare dei prestiti.
TRA FINTECH E YUAN
In mezzo a tutti questi guai, c’é la crociata contro il fintech e la spinta allo yuan digitale, che il Partito comunista vorrebbe moneta legale entro fine 2021. L’impero fintech di Jack Ma, fondatore di Alibaba, è stato in parte demolito, a suon di multe, trasformazioni societarie coatte e cappi intorno al collo.
L’avvento dello yuan digitale in Cina, operazione che prevede tra le altre cose la progressiva messa al bando del Bitcoin (ma questa è un’altra storia), rischia di tagliare fuori dai giochi Alipay, la piattaforma dei pagamenti online di Alibaba, il cui monopolio come raccontato da Formiche.net, è stato frantumato nel corso di mesi di scontro con Pechino. Un report di Fitch getta ancora un’ombra sull’impero di Ma, imprenditore a suo modo visionario che da quando è entrato in rotta di collisione con la Repubblica Popolare è quasi sparito dalle scene.