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Così Washington e Tokyo si preparano all’assalto cinese a Taiwan

Morire per Taiwan? Il grande enigma che passa dalle cancellerie di Washington e Tokyo (e non solo) trova una risposta operativa simulata: la pianificazione su cosa farebbero le forze statunitensi e giapponesi se la Cina invadesse l’isola

All’indomani del messaggio duro del segretario del Partito comunista cinese, il capo dello stato Xi Jinping, su una Cina pronta a schiacciare Taiwan per la riunificazione delle Cine, gli Stati Uniti e il Giappone hanno condotto esercitazioni militari congiunte e segrete in cui hanno simulato un conflitto (con la Cina, su Taiwan). Le notizie arrivano ai media come forma di deterrenza, mentre il punto reale della questione resta se effettivamente Washington e Tokyo sarebbero pronti a morire per Taipei. Tuttavia queste attività testimoniano un crescendo della tensione, legata anche al centenario del Pcc, momento in cui Xi vuole ulteriormente imprimere nel Paese la propria dottrina e visione del mondo (una Cina globale per cui Taiwan è una priorità imprescindibile).

Secondo le informazioni che arrivano ai media in forma anonima, i funzionari militari statunitensi e giapponesi hanno iniziato una seria pianificazione per un possibile conflitto giù nell’ultimo anno dell’amministrazione Trump. Si parla di attività da tavolo strategico, con wargame simulati abbinati a esercitazioni puntuali in cui viene mostrata bandiera in aree di frizione – come lo Stretto di Taiwan o il Mar Cinese Orientale e Meridionale.

Sulla minaccia cinese a Taiwan e nel Mar Cinese (con occhio alle isole contese Senkaku) si basa anche la spinta formale all’espansione militare che l’ex prima ministro Shinzo Abe aveva avviato nel 2019. Questo lavoro è continuato sotto le amministrazioni di Joe Biden e del successore di Abe, Yoshihide Suga, ma quest’ultimo sembra più timido nel procedere, tanto che recentemente Washington ha rimproverato Tokyo sulla necessità di fare sul serio con la Cina.

Gli Stati Uniti e il Giappone si sono allarmati davanti alla crescente misura degli show of force cinesi (recentemente Pechino ha fatto volare un numero mai visto di aerei da combattimento e bombardieri nella zona di identificazione della difesa aerea di Taiwan). Anche la marina, l’aeronautica e la guardia costiera cinesi sono diventate sempre più attive intorno alle Senkaku – isolotti dal valore strategico, amministrati dal Giappone, ma rivendicati da Cina (che li chiama Diaoyu) e Taiwan (con l’interesse giapponese per Taipei, mai così esplicito come in questo momento, che sovrappone dunque questioni diverse di sicurezza e interesse nazionale, con Taipei che si trova a 110 km da Yonaguni, l’isola più occidentale dell’arcipelago nipponico).

D’altronde da Pechino escono messaggi allarmanti. L’ultimo in ordine di tempo, mentre Xi parlava da Piazza Tienanmen, è stato messo nero su bianco da una pubblicazione tecnica legata al governo cinese. Il magazine Naval and Merchant Ships ha pubblicato un’analisi (e un video, uscito su Weibo) in cui si spiegava che la via per l’indipendenza formale di Taiwan avrebbe portato solamente verso una “fine mortale” e si fornivano idee su come l’attacco cinese all’isola sarebbe possibile.

Non è la prima volta che questo succede, e la particolarità oltre alla coincidenza temporale (che fa da ulteriore rafforzamento del messaggio) sta nell’assenza di valutazione su un potenziale contrattacco come scenario: ossia, la risposta cinese all’interrogativo se qualcuno fuori da Taipei sarebbe stato pronto a morire per la causa taiwanese. Questa narrazione — contrastata dalle spifferate sulle pianificazione di guerra segrete — si abbina a mosse pratiche come il miglioramento, rapido e sostanzioso, delle capacità anfibie delle Forze armate della Repubblica popolare. Gli Stati Uniti proteggono l’Isola, ma cosa succederebbe se la Cina lanciasse un attacco? Intanto, davanti a questa ultima spiaggia, Washington sta guidando un riarmo di Formosa sotto quella che passa come la “strategia del porcospino“.

Anche per questo gli Stati Uniti desiderano (da tempo) che il Giappone, un alleato del trattato di mutua difesa, inizi una maggiore pianificazione militare congiunta, uscendo in parte dai dettami della costituzione pacifista del dopoguerra e coordinandosi maggiormente con la Corea del Sud – altro grande alleato regionale dell’America, con cui Tokyo ha un rapporto complicato – e con il gruppo del Quad, l’alleanza militare (che gli Usa intendono implementare) con India e Australia. Inoltre, gli americani vorrebbero una maggiore integrazione tra gli alleati asiatici e l’Ue, al fine di formare un gruppo compatto che faccia da fronte di contenimento (anche in ottica di deterrenza militare) all’ascesa cinese.

Un fronte in cui il concetto di Occidente supera la connotazione geografica e passa direttamente al macro-tema: Democrazie unite contro gli autoritarismi, di cui la Cina è capofila; fronte su cui il Giappone ha mostrato alcuni scetticismi. Fin dove dunque pronti alla reazione armata? Con l’aumentare della crisi e il Giappone, come altri Paesi, potenzialmente coinvolto, gli Stati Uniti cercano di trovare equilibri.

Si va allora alla pianificazione militare congiunta con la consapevolezza però che gran parte degli alleati hanno rapporti di carattere commerciale, economico e finanziario con Pechino (come d’altronde anche gli Stati Uniti) e che le interconnessioni rendono quasi impossibile un disaccoppiamento totale, un clima da Guerra Fredda. Contenimento secondo determinati paletti, deterrenza fondamentalmente, e con l’accettazione di determinate linee propagandistiche che per Pechino hanno anche funzione a uso interno.

In caso ipotetico di guerra su Taiwan, gli Stati Uniti faranno affidamento su basi aeree in Giappone. Ma ciò aumenta le probabilità che Tokyo venga trascinata nel conflitto, in particolare se la Cina dovesse cercare di distruggere quelle basi nel tentativo di ostacolare gli Stati Uniti. Così come stesso effetto potrebbe ricadere sulle forze sudcoreane o europee. È questo il peso globale del fronte taiwanese.



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