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Roma è pronta a ripartire. Ma serve un vero city manager, non Mandrake. Parla Delzio

Conversazione con il manager e docente Luiss Francesco Delzio. “Occorre rilanciare Roma partendo dalla forza di un brand che ancora oggi è molto amato a livello internazionale nonostante tutto. Ma attenzione: non bastano gli investimenti pubblici, bisogna liberare quelli privati”. Il governo? “In passato è stato fatto poco, ma ora c’è Draghi”

Ancora pochi giorni e inizieremo a capire. Il 3 e 4 ottobre i romani, insieme ai cittadini di altri 116 comuni d’Italia, saranno chiamati a esprimersi per scegliere il loro nuovo sindaco. Nella capitale, che si vada al ballottaggio il 17 e 18 ottobre, è pressoché scontato.

“Ma ricordiamoci che per governare la città eterna, per citare Gigi Proietti, non basta Mandrake: serve una squadra di amministratori e di manager di assoluta qualità”, ha messo in guardia il manager e docente Luiss Francesco Delzio, autore del saggio “Liberare Roma” (edito da Rubbettino), di cui alcune idee possono essere rintracciate nei programmi elettorali di Enrico Michetti (qui il suo programma) e Roberto Gualtieri (qui il suo programma).

“Nell’ultimo decennio” – ha affermato ancora Delzio in questa intervista a Formiche.net – “sono mancati completamente a Roma tutti e tre i livelli che dovrebbero caratterizzare una capitale mondiale. E mi riferisco alla dimensione globale, a quella nazionale e persino, infine, a quella locale”.

Ecco, andiamo dal generale al particolare. In che senso è mancata la prospettiva internazionale? 

In senso letterale, direi: negli ultimi anni Roma ha rinunciato del tutto a posizionarsi a livello globale, come dimostra il no clamoroso alle Olimpiadi del 2024. In pratica, abbiamo rinunciato a partecipare alla grande sfida tra le capitali capitali dal punto di vista dell’attrazione degli investimenti, dei talenti, delle idee e dei progetti. A questo punto non abbiamo più alternative: occorre rilanciare Roma partendo dalla straordinaria forza del suo brand che ancora oggi è molto amato dagli Stati Uniti alla Cina passando per il mondo arabo. Nonostante tutto.

E se passiamo al ruolo di Roma a livello nazionale?

Mi pare evidente che non ci sia stato alcun supporto da parte del governo, e non intendo certo quello attualmente in carica.

Addirittura?

Il tema dello statuto speciale di Roma, per lunghissimi anni, è completamente sparito dal dibattito politico e parlamentare, così com’è rimasta totalmente irrisolta la questione delle risorse aggiuntive da attribuire alla capitale in virtù del suo ruolo. Ma c’è di più, ed è forse l’aspetto più grave: questo stallo istituzionale è diventato negli ultimi anni un potentissimo alibi per non far nulla. Per abbandonare Roma al suo destino.

Cosa intende invece, Delzio, quando afferma che è mancato pure il livello locale?

Che la gestione dei servizi pubblici locali è stata negli ultimi anni, letteralmente, fallimentare. Anzi, l’idea dei due tempi con cui i Cinquestelle si candidarono e vinsero nel 2016 è completamente naufragata.

A quale idea si riferisce?

Al modello per il quale l’amministrazione dovrebbe prima concentrarsi esclusivamente sul buon funzionamento dei servizi cittadini e solo dopo, a risultato acquisito, volgere lo sguardo più in là, al ruolo nazionale e internazionale della città.

Non funziona?

A mio avviso, una follia assoluta per Roma. E infatti in questi anni non abbiamo avuto né gli uni né gli altri. Anche perché Roma non appartiene solo ai romani o agli italiani, ma al mondo. È questa la nostra grande forza, che dobbiamo necessariamente tornare a far valere.

In tal senso come valuta l’andamento della campagna elettorale attualmente in corso?

Voglio essere ottimista, mi pare sinceramente vi sia stato un salto di qualità se consideriamo almeno le due precedenti elezioni capitoline. Ho riscontrato una maggiore consapevolezza delle potenzialità della capitale e il passaggio da un approccio “pauperista” ad un modello di pensiero “sviluppista”, a vantaggio di tutti.

A questo proposito in “Liberare Roma” lei propone di creare nella capitale un’agenzia per l’attrazione degli investimenti diretti esteri. È da qui che passa la ripartenza della città?

Si tratta di un elemento chiave e, al tempo stesso, anche di un grande punto debole. Nei prossimi anni, nell’era post-Covid, Roma avrà grandi potenzialità di crescita perché le scelte di investimento e di vita di imprenditori, manager e giovani talenti premieranno le global cities con la qualità della vita migliore. Peccato che oggi la quasi totalità dei ragionamenti e delle proposte ruoti intorno agli investimenti pubblici, che siano europei come nel caso del Pnrr o nazionali. E questo è riduttivo e pericoloso.

Perché?

Perché se vogliamo rilanciare davvero questa città non possiamo prescindere dagli investimenti privati: con una attenta e innovativa regia di Roma Capitale, la quantità di investimenti internazionali di qualità attratti qui potrebbe essere moltiplicata. Ciò moltiplicherebbe anche le opportunità di lavoro per i giovani romani, che oggi affrontano un contesto da area depressa. Ma è un tema di cui pochissimo si è discusso durante questa campagna elettorale.

A quali investimenti si riferisce?

In primis a quelli locali, ma poi soprattutto a quelli internazionali.

Per attrarre i quali Roma dovrebbe dotarsi dell’agenzia che lei propone, giusto?

Guardi, non c’è da inventarsi molto. Le principali capitali europee si sono organizzate per attrarre i cosiddetti investimenti diretti esteri. Il modello a mio avviso più interessante è quello di Parigi che nella capitale potrebbe essere replicato agevolmente. Basta volerlo.

Lo stesso vale per gli investimenti di provenienza nazionale?

Anche da questo punto di vista si può aprire una stagione nuova. Il Campidoglio ad esempio, ovviamente con il supporto della regione Lazio, dovrebbe valorizzare maggiormente la presenza a Roma del quartier generale delle principali partecipate pubbliche, che negli ultimi 10 anni sono diventati campioni nazionali con proiezione globale. Mi auguro che dopo il voto venga creato finalmente un tavolo permanente di dialogo e programmazione con questi big players.

E la cosiddetta Tiburtina Valley?

È un altro esempio in tal senso. Ormai è da tempo che è stata abbandonata a sé stessa, basta pensare ai cantieri infiniti sulla via Tiburtina. E invece potrebbe diventare un hub di attrazione di investimenti industriali ad alto valore aggiunto e di grande spessore tecnologico.

A proposito di innovazione, che ne pensa della proposta avanzata per prima da Unindustria di creare un Politecnico a Roma

È un’idea eccellente, perfetta per Roma. Non dimentichiamoci che la capitale ospita il primo polo universitario d’Europa. Il Politecnico consentirebbe di valorizzare appieno la vocazione della città eterna a ospitare attività industriali ad alto valore aggiunto. Ma la proposta è importante anche per un’altra ragione.

Quale?

Non è da tralasciare che a formularla siano stati gli industriali. Il protagonismo di Unindustria e delle altre categorie produttive è fondamentale affinché la città possa ripartire, perché spazza via l’idea consunta, ma che poi torna sempre come una sorta di evergreen, secondo cui l’economia romana sia soltanto luogo di bed & breakfast e pizzerie.

Però è indiscutibile che il turismo e il terziario siano i settori principali su cui poggia la capitale. Non è così?

Certamente lo è. E naturalmente le attività ricettive e di ristorazione sono nobilissime e fondamentali per Roma e spesso sono organizzate anch’esse secondo modelli manageriali di tipo innovativo. Però c’è anche dell’altro.

Che cosa?

Abbiamo una componente industriale importante e, soprattutto, opportunità industriali molto rilevanti. Lo dimostrano anche i dati sulla nascita di nuove imprese, che a Roma sono insospettabilmente alti, soprattutto nel settore dell’Ict. In pochi lo sanno, ma la città eterna è la capitale italiana della cybersecurity.

In quest’ottica quanto ha pesato finora l’assenza di una reale partnership tra pubblico e privato a Roma?

Moltissimo, è stato il vero gap che Roma ha scontato negli ultimi venti anni rispetto a Milano. Non a caso la rinascita del capoluogo lombardo a livello globale cominciò negli anni novanta con la giunta allora guidata da Gabriele Albertini che fondò tutto il suo operato sull’idea della partnership tra pubblico e privato. Tutto ciò a Roma non c’è mai stato per la verità, ma ora è arrivato il momento che accada: nel mondo esistono ingenti capitali in cerca della migliore allocazione possibile, che la capitale potrebbe candidarsi con successo a ospitare nei settori in cui è più forte.

Sotto questo profilo che cosa si aspetta dal governo da qui ai prossimi mesi?

Che il tema Roma torni a essere centrale nell’agenda politica italiana. E in questo senso sono ottimista per una serie di motivi.

Quali?

Innanzitutto perché abbiamo un premier sì globale ma anche con solide radici romane. Un presidente del Consiglio che conosce a menadito i meccanismi di attrazione dei capitali stranieri e di competitività anche a livello urbano.

E poi?

Perché le Camere, su impulso soprattutto di Fratelli d’Italia, hanno rimesso al centro della sua attività il dibattito su Roma Capitale, come i lavori parlamentari degli ultimi mesi confermano. C’è da sperare ovviamente che l’iniziativa non si fermi, ma che anzi arrivi finalmente a conclusione. La città lo aspetta da troppo tempo.

In questo percorso di riappropriazione da parte di Roma del suo ruolo di capitale quali rischi vede?

Ci sono due grandi porte girevoli da superare, la prima delle quali è rappresentata dalla gestione del Pnrr. I progetti per Roma che sono stati previsti finora sono francamente poco rilevanti. Dobbiamo trovare il modo di irrobustire sensibilmente la qualità delle proposte e la quantità delle risorse indirizzate su Roma.

E la seconda? 

Mi riferisco all’incapacità di project managing che caratterizza la città. Inutile girarci intorno: ci è mancato finora un know how che consentisse a Roma Capitale di sviluppare progetti ambiziosi e di rendere credibile il loro finanziamento e la loro attuazione. Da questo punto di vista chiunque vinca dovrebbe creare nella capitale una figura vera di city manager, al posto di quella poco incisiva presente oggi: a Milano questa decisione fu assunta ormai quasi venticinque anni fa, ai tempi di Albertini sindaco.

Che scelse Stefano Parisi. Dovrebbe accadere anche a Roma qualcosa del genere?

Assolutamente sì, e con lo stesso spirito, visto che quel ruolo venne istituito dal centrodestra ma poi confermato dal centrosinistra fino a Beppe Sala. L’idea che vi sia un grande coordinatore della macchina amministrative capitolina, dotato finalmente dei poteri e delle competenze necessarie a superare le strozzature e i nodi gordiani nei quali la capitale è rimasta impigliata, così da garantire a chi vincerà di riuscire a governare. Vorrei che questa fosse la prima delibera della prossima giunta di Roma.



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