L’Arabia Saudita sta costruendo missili balistici con l’aiuto cinese: una questione che può creare problemi nei rapporti tra Riad e Washington e che dimostra come Pechino giochi sul fronte mediorientale i propri interessi e lo scontro con gli Usa
Le agenzie di intelligence statunitensi hanno valutato che l’Arabia Saudita sta producendo dei propri missili balistici con l’aiuto della Cina, secondo le informazioni ricevute dalla CNN. Si tratta del secondo duro colpo subito da Washington nel giro di poche settimane su un fronte simile, dopo che gli Emirati Arabi Uniti hanno annunciato di rinunciare all’acquisto dei caccia di ultima generazione F-35 per via dei requisiti stringenti richiesti dagli americani – requisititi che sostanzialmente chiedevano ad Abu Dhabi di tagliare i propri rapporti con la Cina, per esempio sul fronte dell’hi-tech nelle telecomunicazioni e i legami con Huawei.
Il colpo da Riad non è inaspettato: come già successo con gli emiratini, gli americani avevano già preso posizioni severe (sia in pubblico che in privato) con i sauditi riguardo alle partnership di questi con la Cina. Per esempio nel caso della Cosco che ha messo gli occhi sul porto di Jeddah, sul Mar Rosso, non distante alla base di Yanbu che gli americani vorrebbero potenziare.
L’Arabia Saudita è nota per aver acquistato missili balistici dalla Cina già alla fine degli anni 80, quando arrivarono nel Regno i Dong Feng 3, ma non è mai stata in grado di costruirne di propri fino a questo momento: adesso fonti militari e immagini satellitari ottenute dalla CNN suggeriscono che il regno sta fabbricando quei vettori in almeno una località. A quanto pare, i funzionari di varie agenzie statunitensi, tra cui il Consiglio di Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, sono stati informati negli ultimi mesi in briefing top secret in cui le intelligence hanno tracciato molteplici trasferimenti di tecnologia sensibile finalizzata alla realizzazione di missili balistici.
La Cina avrebbe fornito quella tecnologia (e potenzialmente anche parte del know how) all’Arabia Saudita, e forse si basa anche su questo la posizione severa nei confronti di Riad che l’amministrazione Biden ha preso; sia per ragioni connesse al sistema di valori (democratici) che l’attuale presidente sta trasformando in un vettore di politica internazionale, sia per questioni contingenti come l’eccessiva vicinanza ai cinesi, che in un quadro di polarizzazione tra Washington e Pechino è sempre più ritenuta inaccettabile dai primi.
Se, nonostante le grandi commesse militari che da molto tempo legano Riad e Washington, questi ultimi hanno sempre preferito filtrare gli armamenti da consegnare ai sauditi, una ragione c’è: il timore che armi strategiche come i missili balistici possano alterare l’equilibrio di potenza nella regione e produrre ragioni per una guerra con cui l’Arabia Saudita potrebbe lanciarsi contro l’Iran (semplificando: la Repubblica islamica sciita è considerata nemica esistenziale dal regno sunnita, e viceversa).
Sotto quest’ottica, la Cina sfrutta questo spazio e si mostra pronta ad accogliere le richieste della corte dei Saud – che è preoccupata, e costantemente sotto il fuoco balistico che dallo Yemen gli Houthi fanno piovere sulle città saudite con armamenti le cui componenti sono fornite dai Pasdaran. In questo Pechino si dimostra disponibile a portare avanti un modello diverso da quello americano. La partita è parte dello scontro globale tra Usa e Cina, scontro che si gioca appunto attorno a quei modelli di interpretazione del mondo.
Ora Washington si trova a muoversi su uno scacchiere complicato. La proliferazione missilistica saudita, con aiuto cinese, mette gli americani in difficoltà sul dossier-Iran e parte cruciale di quello regionale. Se infatti una porzione dei negoziati extra-Jcpoa (ossia quelli che vanno oltre la ricomposizione dell’accordo sul nucleare e mirano alla costruzione di una più ampia architettura di sicurezza regionale) ruota attorno al programma di missili balisti di Teheran, come dovrebbero comportarsi gli Usa con Riad?
Una risposta che vedrebbe mettersi di traverso l’interesse cinese (sia diretto, per la cooperazione economica, sia politico nell’ambito di quel confronto tra modelli da offrire a terze parti). Di più: tutto si basa su una ricalibrazione dell’attenzione americana verso l’Indo Pacifico, primo e cruciale livello del contenimento cinese: per poter muovere risorse in quell’area, gli Stati Uniti hanno per esempio spostato alcune batterie missilistiche difensive dall’Arabia Saudita all’Australia, dimostrando uno shift di priorità che Riad detesta.
Risultato: mentre gli americani si disimpegnano dal Medio Oriente per concentrarsi sulla Cina, la Cina sfrutta gli spazi per creare problemi agli americani proprio sul terreno mediorientale, in modo da allontanare l’attenzione di Washington dal proprio cortile di influenze. Basta vedere come il ministero degli Esteri cinese ha risposto alle richieste di informazioni della CNN: Pechino e Riad sono “partner strategici completi”, anche sul campo militare, dice in una dichiarazione velenosa fornita alla rete statunitense: “Tale cooperazione non viola alcuna legge internazionale e non comporta la proliferazione di armi di distruzione di massa”.
Nel 2019, quando con l’amministrazione Trump i rapporti con Riad viaggiavano su un filone di amicizia e interessi (anche personali) ai membri del Congresso non vennero rivelate informazioni di intelligence classificata a proposito della collaborazione tra Cina e Arabia Saudita sul programma missilistico. La Casa Bianca trumpiana, che aveva alzato mostruosamente il livello dello scontro con Pechino al punto di farlo diventare questione mainstream, non poteva (per immagine e per interesse) mostrare che quello che allora era il principale alleato internazionale aveva una certa imbarazzante liason tecnica con il nemico dichiarato numero uno.
I democratici, che scoprirono la questione al di fuori dei regolari canali governativi (grazie a un’altra inchiesta della CNN), si infuriarono, concludendo che la vicenda era stata deliberatamente lasciata fuori da una serie di briefing e dunque il governo aveva mentito al Congresso.
Le foto satellitari adesso in mano alla CNN sono state scattate da Planet, una società di imaging commerciale, tra il 26 ottobre e il 9 novembre in un impianto vicino a Dawadmi, in un’area in cui si sapeva che i sauditi avevano costruito una struttura con l’aiuto dei cinesi. Secondo i ricercatori del Middlebury Institute of International Studies si tratta della “prima prova inequivocabile che l’impianto è operativo per produrre missili”.