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Senza stabilità non c’è energia in Nordafrica

La stabilità di due crisi complesse, come Tunisia e Libia, così come le destabilizzazioni nel Sahel non possono essere trattate separatamente dalle necessità energetiche emerse dal conflitto russo in Ucraina. Anzi, tutto ciò che accade nel Mediterraneo allargato si tiene insieme

Se da un lato l’Ue e gli Stati Uniti guardano all’Africa come fonte per aiutare la differenziazione europea dalla dipendenza dalle fonti energetiche russe – come dimostra il viaggio del presidente del Consiglio, Mario Draghi, e del ministro Luigi Di Maio ad Algeri, per conto tanto di Roma quanto di Bruxelles – dall’altro si materializza la necessità di affrontare fenomeni di instabilità a potenziale ricaduta regionale. Su tutti, la massima attenzione riguarda ciò che sta accadendo in Tunisia e in Libia.

Semplificando, i due Paesi si trovano ad affrontare la fase più critica di questi ultimi, complicati, 12 mesi. A Tunisi, la decisione del presidente Kais Saied di sciogliere il parlamento sembra una stretta autoritaria che tendenzialmente può aprire a scenari di protesta e disordini, le cui ricadute potrebbero essere ben più ampie rispetto alle semplici dinamiche dirette del Paese. In Libia, il governo di Abdelhamid Dabaiba è stato sfiduciato dal parlamento, che a sua volta ha affidato l’incarico a Fathi Bashaga (conseguentemente a un accordo tra le varie anime del Paese), ma il premier uscente si rifiuta di lasciare l’ufficio: inutile ricordare che situazioni del genere hanno già portato a derive armate, che hanno coinvolto attori esterni in scontri per procura.

Senza affrontare queste situazioni diventa difficile approcciarsi alla regione, dove – spiegano con discrezione i nordafricani – è impossibile non pensare a “policy ampie”, ossia a un “framework” che affronti nel completo tutti i dossier. Senza stabilità tutto il resto assume valore relativo. “L’amministrazione [Biden] finora ha rifiutato di assumere un ruolo di leadership visibile [e ha tralasciato il] tentativo di mediare due delle peggiori crisi del Nord Africa”, sostiene James Cafarnao della Heritage Foundation (mai tenero con le politiche scelte dal democratico alla Casa Bianca). Anche alla luce di questo, tra i corridoi governativi nordafricani credono che un ruolo centrale tocchi all’Ue.

L’instabilità connessa a questi due dossier potrebbe essere una problematica molto articolata, perché creerebbe un clima regionale complicato per accordi, cooperazioni e investimenti. Di più. La Libia è un produttore di petrolio (i cui impianti sono operati da società europee e americane) che ha già pagato il blocco militarizzato delle produzioni, per esempio durante l’ultimo conflitto civile – che è in fase di cessate il fuoco dall’autunno 2020. La Tunisia ospita sul suo territorio il tracciato del gasdotto “Enrico Mattei”: noto come Transmed è l’infrastruttura che l’Italia e l’Europa puntano a potenziare per aumentare le forniture di gas naturale algerino.

Vale la pena allargare ancora il quadro, perché l’instabilità nordafricana si lega anche alle tensioni tra Algeria e Marocco per l’annosa questione del Sahara Occidentale; tensioni che hanno già avuto sfoghi sull’Europa e sul mondo del gas: si veda la chiusura del gasdotto Gme diretto in Spagna e le tensioni di Algeri contro Madrid per aver sposato la sovranità marocchina nel territorio conteso. Ma va anche considerato che questa instabilità lungo la quarta sponda dell’Italia si prolunga più a sud, nel Sahel – che la rappresentante speciale Ue, Emanuela Del Re, definisce la frontiera meridionale dell’Europa.

Là, tra Mali, Ciad e Burkina Faso, in mezzo alle destabilizzazioni istituzionali hanno trovato ampi spazi di infiltrazione competitor rivali dell’Europa, come la Russia (con effetti deleteri, a quanto pare). O la Cina: come dimostra l’invio di armamenti pesanti in Serbia, diventa impossibile lasciare sguarnite regioni come quella balcanica o quella africana, in quanto aree chiave di disturbo globale da parte della Cina, “che colpisce sia la pace e la prosperità del continente che gli interessi occidentali”, sottolinea un’altra fonte politica europea che muove un appello ad affrontare in modo proattivo certe questioni.

“Le guerre innescano sempre un effetto domino di destabilizzazione”, commentava lo scorso mese il generale italiano Claudio Graziano, presidente del Comitato militare europeo: la politica estera non prevede vuoti, “li colmano altri”, avvisava. Gli Stati Uniti sembrano interessati ad affrontare questi intricati dossier, ma senza priorità in agenda, ed è qui che nascono anche maggiori spazi e opportunità per mettere in azione le politiche europee.

“LEuropa ha bisogno di una difesa autonoma e di una propria capacità di proiezione anche per diventare il punto di riferimento di unarea strategica più ampia, che coinvolge il Mediterraneo, lAfrica e il Vicino Oriente”, ha detto il presidente della Fondazione Med-Or, Marco Minniti, parlando di autonomia strategica con il settimanale greco Parapolitika. “Cè un legame tra quanto sta accadendo in Ucraina e il futuro del Mediterraneo, e non capirlo sarebbe un tragico errore”, ha aggiunto.


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