Il Pentagono ha chiesto al Congresso di includere Australia e Gran Bretagna all’interno del nuovo pacchetto di fondi da destinare alla Difesa. Cruciali saranno gli investimenti per nuove capacità industriali nel settore delle materie prime, essenziali per le tecnologie militari e green. Mentre l’Europa…
Per affrontare i crescenti rischi lungo le supply chain delle materie prime critiche per l’industria militare e le tecnologie rinnovabili, gli Stati Uniti guardano con grande interesse a nuove partnership con i Paesi tradizionalmente alleati, tra cui Australia, Canada e Gran Bretagna.
Lo conferma la recente iniziativa del Dipartimento della Difesa, che ha richiesto al Congresso un importante emendamento al Defense Production Act (DPA), strumento legislativo affinato durante la Guerra fredda, largamente usato anche durante l’emergenza Covid-19 dall’amministrazione Trump e di recente rievocato per rilanciare la produzione domestica di asset strategici, come semiconduttori e batterie. Si tratta di un meccanismo che prevede, inoltre, la possibilità di richiedere alle imprese di dare priorità alla produzione di alcuni materiali, secondo una lista di priorità stabilita dalle agenzie federali competenti. È recente anche una parziale revisione della lista dei materiali critici da parte dello U.S. Geological Survey.
I funzionari del Pentagono starebbero infatti lavorando per far includere nel prossimo National Defense Authorization Act, ovvero l’iter autorizzativo per allocare le spese militari nel budget nazionale, alcune clausole che potrebbe ritornare utili per affrontare la crisi delle materie prime e rilanciare la produzione americana di litio, cobalto, terre rare e altri importanti metalli necessari per la transizione green-tech.
Attualmente solo le imprese canadesi, oltre a quelle statunitensi chiaramente, rientrano tra i requisiti per poter accedere ai fondi del DPA. La proposta vorrebbe estendere la definizione di “domestic source” ad Australia e Gran Bretagna, concedendo alle relative imprese private la possibilità di accedere ai finanziamenti federali, allargando così il concetto di “base industriale nazionale” a paesi considerati alleati e su cui poter costruire solide e competitive partnership commerciali. Due aspetti che risulteranno cruciali per affrontare la sfida tecno-industriale con la Repubblica Popolare cinese, che controlla gran parte dei settori a monte e a valle della filiera.
L’Australia, Paese dalla tradizione mineraria, rappresenta già un punto di riferimento sui mercati globali per la produzione di litio, mentre di recente la Gran Bretagna ha rivisto le sue ambizioni industriali nell’ottica di diventare un attore chiave nella produzione di batterie, oltre che un importante hub per l’economia circolare e la raffinazione di importanti metalli come nickel, terre rare e litio.
Gli Stati Uniti e l’Australia hanno da tempo avviato dialoghi multilaterali e stretto importanti accordi con il benestare del Dipartimento della Difesa, specialmente per riattivare importanti la produzione domestica di terre rare sul suolo americano, come testimonia l’impegno della compagnia australiana Lynas Corporation di costruire un impianto di separazione di terre rare pesanti (cruciali per i più moderni sistemi militari) in Texas, finanziato dal Pentagono con 30 milioni di dollari. Di simili fondi ha beneficiato l’azienda MP Materials, con circa 45 milioni per passare dalle attività estrattive a quelle a maggior valor aggiunto, come la separazione e la fabbricazione di leghe metalliche: un collo di bottiglia che rappresenta il vero supply risk per l’industria tecnologica americana, e sul quale l’attuale intervento federale potrebbe non essere sufficiente per assicurare un level playing field tra la produzione cinese e quella statunitense.
In generale, l’emendamento in questione potrebbe gettare le basi per un ‘aggiramento’, nel medio-lungo periodo, della Cina diversificando le forniture da like-minded nations, e riducendo così i rischi per le imprese americane con l’approfondirsi della competizione con Pechino. La guerra in Ucraina e l’invasione della Russia, due paesi che seppur in volumi e mercati differenti contribuiscono notevolmente con le esportazioni di palladio, nickel, alluminio e altre materie prime, hanno infatti rilanciato il tema dei ‘rischi geopolitici’ di affidarsi a paesi autoritari per le forniture materiali cruciali per la de-carbonizzazione.
Ad inizio maggio, il Dipartimento dell’Energia statunitense ha annunciato 3.1 miliardi di dollari, come parte del Bipartisan Infrastructure Law, per incentivare la produzione domestica di batterie e componenti (anodi e catodi) oltre a lanciare progetti pilota per il riciclo dei materiali e il riutilizzo attraverso stanziamenti di circa 60 milioni di dollari. Entrambe le iniziative guardano nella direzione di un mercato automotive al 50% costituito da veicoli elettrici venduti entro il 2030, oltre ad inserirsi nelle precedenti iniziative della Presidenza Biden per rafforzare la filiera dei battery metals e assicurare le adeguate forniture alle industrie nazionali, con il mercato delle batterie al litio destinato ad esplodere in questo decennio.
Resta da capire il ruolo dell’Unione Europea in questa corsa globale alle materie prime in un’ottica transatlantica. Come riportato su queste colonne, le ambizioni strategiche e di affrancamento dai combustibili fossili mettono l’Europa su un cammino lastricato di opportunità e rischi, specialmente per quanto riguarda la supply chain dei metalli critici. La volontà di rilanciare la produzione europea di tecnologie rinnovabili chiave – come turbine eoliche, pannelli fotovoltaici, batterie e celle all’idrogeno – per assicurare una transizione giusta, verde e competitiva (Green Deal) aumenterà esponenzialmente la domanda europea di materie prime, spostando i rischi geopolitici da valle a monte. Una strategia apparentemente bicefala che, secondo un Policy Brief congiunto dell’European Council on Foreign Relations e di Rhodium Group, rischia di essere pericolosa e controproducente.
Il conflitto ucraino e il contesto di crescente competizione tra grandi potenze hanno catalizzato una rinnovata attenzione sulle dipendenze da paesi autoritari. “Il crescente dominio della Cina in segmenti cruciali di queste filiere merita attenzione”, dal momento che la questione per i policymakers europei “non è se, ma come dovrebbero rispondere” ad una crisi internazionale che possa impattare le filiere del futuro. Soprattutto dal momento che le “considerazioni geopolitiche hanno ricevuto troppa poca attenzione nelle tradizionali valutazioni dei rischi lungo le filiere delle rinnovabili”. La soluzione? Mappare le dipendenze, per anticipare le future disruption, individuare strumenti d’intervento mirati alle necessità e caratteristiche di ciascuna industria e segmento della catena del valore, mobilitare il settore privato e ricorrere al public procurement, in un’ottica di sostenibilità come valore aggiunto per le imprese. Ma soprattutto, evitare di inseguire l’autarchia.
“Il reshoring totale è un’opzione troppo costosa”, che rischierebbe di aumentare i costi e ritardare l’adozione di tecnologie utili all’obiettivo della transizione energetica. Servirebbe, invece, un approccio multidimensionale, ma realistico. “Il più sensato approccio è che i decisori europei valutino la loro esposizione ai rischi provenienti dalla Cina, piuttosto che cercare di eliminare tutti i collegamenti alle aziende cinesi nella catena di approvvigionamento”.
Riscrivere la geografia della globalizzazione, attraverso un approccio che premi affidabilità, trasparenza, standard tecnologici condivisi e obiettivi politico-sociali concordati potrebbe essere nelle corde del EU-US Trade Technological Council, del rinnovato G7 e dell’Oecd. Tuttavia, servirà maggior coordinamento in un’ottica transatlantica per le materie prime e dei segmenti a valle, per evitare che l’Occidente non imploda ricorrendo a pratiche protezionistiche, con effetti distorsivi sulla sicurezza e competitività delle filiere emergenti.