Le raccomandazioni finali che si rivolgono all’intera comunità internazionale fanno eco alle richieste delle vittime, degli attivisti e dei parlamenti (incluso quello italiano). Il commento di Laura Harth (Inter-Parliamentary Alliance on China)
All’ultimo minuto. Precisamente 11 prima della mezzanotte che segna la fine del suo mandato da Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, Michelle Bachelet ha dato la luce verde alla pubblicazione del tanto atteso rapporto sullo Xinjiang. Annessa alla pubblicazione la nota dell’ambasciata della Repubblica popolare cinese a Ginevra dello stesso giorno che spiega – in parte – il ritardo: “La Cina si oppone fermamente alla pubblicazione della cosiddetta ‘valutazione della situazione dei diritti umani nella Regione Uigura autonoma dello Xinjiang, Cina’ da parte dell’Ufficio dell’Alto commissario per i diritti umani”. È soltanto la conferma finale del duro e lungo travaglio che ha accompagnato la stesura e il rilascio del rapporto che condanna Pechino per “le gravi violazioni dei diritti umani nello Xinjiang”, che “sollevano preoccupazioni anche dal punto di vista del diritto penale internazionale”.
Sono passati cinque anni da quando all’Ufficio cominciarono ad arrivare accuse nei confronti di Pechino sulle politiche messe in atto nello Xinjiang. Cinque lunghi anni per le vittime che a nome proprio o a nome dei familiari tutt’ora irraggiungibili hanno testimoniato gli orrori vissuti. Un dolore intensificato dal disinteresse globale prima e dalla crescente repressione transnazionale messa in atto nei loro confronti dall’intero apparato del Partito comunista cinese. Dalla caccia alla diaspora tramite operazioni illegali sotto l’egida della Commissione per l’ispezione disciplinare e il ministero per la Pubblica sicurezza – con il quale, ricordiamolo, il ministero degli Interni italiano mantiene diversi accordi – o le ritorsioni contro i familiari rimasti in Cina, alle confessioni forzati e le calunnie – spesso di pesante natura sessista – lanciati nei confronti dei testimoni più coraggiosi. In quanto tale, la loro persistenza ha anche contribuito notevolmente alla crescente consapevolezza circa le mire e i meccanismi dell’apparato cinese al di fuori dal Paese, ivi incluso l’utilizzo strumentale di media e figure occidentali come portavoce per eccellenza dei tentativi di Pechino di dare un’aurea rosea a quanto possono “costituire crimini internazionali, in particolare crimini contro l’umanità”.
Questa la conclusione delle 45 pagine che inchiodano Pechino e mettono il timbro dell’ufficio di Bachelet, tutt’altro che falco nei confronti della Repubblica popolare cinese – la sua caduta in disgrazia a causa dei suoi ossequi considerati eccessivi anche dai suoi esperti indipendenti è stata ampiamente documentata – sulla lunga serie di accuse e documentazioni dei crimini in corso.
Con un tono molto conservatore e pertanto difficilmente rifiutabile per Pechino, il rapporto analizza soprattutto i documenti governativi trapelati negli ultimi anni – cita ampiamente i Xinjiang Papers, i China Cables, la Karakax List, il database della polizia di Urumqi, e i Xinjiang Police Files (tutti raccontati anche su Formiche.net) – e ne certifica le veridicità. Coadiuvato dalle testimonianze dirette di vittime, mette l’enfasi sulle detenzioni arbitrarie e la campagna di internamento di massa, così come sulle violazioni della libertà religiosa. Viene un po’ meno per quanto riguarda le questioni delle prevenzioni delle nascite e il lavoro forzato, benché nelle sue conclusioni fa suoi i risultati dell’ultimo rapporto dell’Organizzazione mondiale del lavoro che aveva senza mezzi termini parlato dell’utilizzo del lavoro forzato nella regione.
Il rapporto cita la mancanza di accesso indipendente e senza ostacoli alla regione – altra frecciata indirizzata a Pechino, la quale dal canto suo si lamenta che l’Alto commissario non è riuscito a impedire al suo staff di fare a meno della propaganda di cui si era fatta imboccare durante la sua “visita” nel Paese in primavera di quest’anno. Inoltre, il documento reitera le richieste di varie procedure speciali delle Nazioni Unite per i diritti umani di poter verificare la situazione sul campo al fine di togliere i dubbi rimasti: non sull’esistenza dei crimini internazionali ormai accertati, ma per poter determinare la scala delle responsabilità criminali che ne derivano.
A poche ore dalla sua pubblicazione, sessanta organizzazioni della diaspora uigura hanno definito il rapporto “di estrema importanza. Apre la strada a ulteriori azioni significative e tangibili da parte degli Stati membri, degli organismi delle Nazioni Unite e della comunità imprenditoriale. Accountability starts now”.
Infatti, il lavoro ricomincia proprio da qui. Le raccomandazioni finali che si rivolgono all’intera comunità internazionale fanno eco alle richieste delle vittime, degli attivisti e dei parlamenti (incluso quello italiano). Si nutrono poche speranze che il Partito comunista cinese – a due mesi circa dal suo XX Congresso che dovrebbe incoronare Xi Jinping, parte in causa negli orrori nello Xinjiang, con un terzo mandato senza precedenti – vorrà darne seguito. Ma si può e si deve credere che i governi, le istituzioni internazionali e il mondo imprenditoriale che si sono finora mostrati titubanti si assumano immediatamente le responsabilità derivanti dai loro impegni internazionali.