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Batterie, sviluppo e meno Cina. La ricetta Usa in Zambia e Congo

Batterie, sviluppo e meno Cina. La ricetta Usa in Zambia e Congo

Sono passati mesi dal memorandum trilaterale tra Kinshasa, Lusaka e Washington che mira a centralizzare la produzione di batterie in Africa come alternativa all’esportare i materiali grezzi in Cina. Ma il successo non è garantito, avverte Soulé (Carnegie Endownment), per ragioni che spaziano dalle decisioni dei Paesi del Sud globale alla mancanza del settore privato. Lezioni per il Piano Mattei

Con l’acuirsi delle tensioni geopolitiche tra Stati Uniti e Cina è diventato sempre più difficile ignorare il fatto che, con il suo controllo orizzontale e pervasivo sulla filiera dei materiali che servono alla transizione ecologica e digitale, Pechino ha a disposizione una leva geo-economica in grado di far deragliare i piani dell’Occidente. Le restrizioni su gallio e germanio imposte dal Partito comunista cinese a luglio (ma anche il ricatto energetico di Vladimir Putin all’Europa durante lo scorso inverno) hanno dimostrato i rischi della dipendenza in un mondo sempre più soggetto alla securitizzazione delle relazioni economiche.

Di conseguenza, i Paesi occidentali stanno prendendo provvedimenti per minimizzare detti rischi – risalendo lungo le catene di approvvigionamento per sottrarre le sorgenti di materiali critici dalle grinfie cinesi. Questa la ratio dietro a patti come il Memorandum of Understanding trilaterale firmato lo scorso dicembre tra Repubblica Democratica del Congo, Zambia e Stati Uniti in occasione del vertice Usa-Africa. Unito a una serie di accordi commerciali e di investimento, questo memorandum si presenta come un tassello della strategia statunitense per assicurarsi la fornitura di cobalto e rame, di cui i due Paesi africani sono grandi esportatori, necessari per le batterie delle auto elettriche.

Qui Washington, come del resto le capitali europee, arriva con anni di ritardo: da tempo Pechino stringe accordi di fornitura delle materie prime in Africa, salvo poi importarle e concentrare il processo di raffinazione sul suolo cinese. La stessa Via della Seta, che prima si concentrava soprattutto sugli investimenti infrastrutturali, sta diventando un gigantesco canale di investimento per assicurare il controllo delle aziende cinesi sui settori minerari del Sud globale. Dunque la controproposta statunitense a Kinshasa e Lukasa arriva sotto forma di investimenti per sviluppare le loro industrie minerarie nazionali, dall’estrazione fino alla costruzione delle batterie e delle loro componenti, passando anche per la raffinazione e le pratiche di estrazione sostenibili.

Sulla carta è difficile ignorare i vantaggi reciproci di questo genere di approccio. Specie per Zambia e Repubblica democratica del Congo, che da parte loro sono ben consapevoli della rivalità geopolitica Usa-Cina e stanno rinegoziando gli accordi con quest’ultima – a dimostrazione del fatto che hanno più leva ora che c’è interesse anche da Occidente. Tuttavia, come evidenzia Folashadé Soulé (Nonresident Fellow del Carnegie Endowment for International Peace, Africa Program, ricercatrice senior presso l’Università di Oxford e visiting scholar dell’Università del Ghana) per quanto la formulazione di un MoU sia politicamente e strutturalmente più semplice di un accordo con coperture e impegni precisi, c’è il rischio che le parole si traducano in un nulla di fatto.

“Si dovranno considerare due serie di incentivi: quello commerciale e quello del rischio”, scrive Soulé nella sua analisi per il think tank statunitense. Da una parte, l’amministrazione Biden “dovrà prendere in considerazione un’ampia gamma di misure economiche per le aziende impegnate nel settore dei minerali critici”, cosa a cui rispondono, almeno in parte, le misure dell’Inflation Reduction Act. Dall’altra, sia la politica che il settore privato “dovranno considerare gli incentivi al rischio” perché “si dovrà lavorare molto sul campo” sia in Zambia che in Rdc, dove “corruzione e il malgoverno nel settore minerario sono semplici sintomi di un problema più ampio di governance in questi Paesi”.

Per affrontarle detti problemi, prosegue Soulé, “sarà necessario un impegno politico profondo, coerente e permanente, che potrebbe richiedere tempo prima di creare un’industria mineraria ideale e ben governata”. E al contempo serve venire incontro alla “profonda avversione al rischio in Africa” tipica delle industrie private statunitensi, cosa che richiede, appunto, l’appoggio di Washington. La quale non deve far mancare il proprio supporto in tutti i campi a Lukasa e Kinshasa – dove si terranno elezioni a dicembre e dove occorre tamponare disinformazione e interferenze politiche che possono influenzare il risultato. E nel rispetto assoluto delle priorità che Zambia e Drc si daranno rispetto ai loro interessi, com’è necessario che sia, ricorda Christian Géraud Neema Byamungu (Nonresident Fellow del Center for Strategic and International Studies, Africa Program).

Insomma, conclude Seulé, affinché il MoU si traduca in azione concreta, “le iniziative politiche di follow-up e la negoziazione dell’accordo dovrebbero contenere misure concrete, avere chiari parametri di riferimento e creare un meccanismo di supervisione per garantire che gli obiettivi siano attuati con successo e vadano oltre la segnalazione politica” di intenti. Che poi è il passaggio dove le aziende occidentali sono storicamente svantaggiate rispetto al dirigismo delle autocrazie. E questo è il nocciolo della questione, anche per chi, come l’Italia, sta approntando strategie parallele come il Piano Mattei: come scrivevamo su queste colonne, la messa a terra passa anche dal mettere il settore privato in condizione di competere nei Paesi del Sud globale.


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