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Minerali critici, una nuova mappa geologica anti-Cina

I tre Paesi dell’anglosfera hanno pubblicato un database per la condivisione di informazioni scientifiche e geologiche dei rispettivi territori nazionali. L’obiettivo: rafforzare la cooperazione nel settore minerario, ricostruendo una filiera svincolata dall’influenza di Pechino…

Nella corsa globale verso net zero, il dispiegamento e lo sviluppo delle clean-tech in tempi rapidi, a costi competitivi e in sicurezza da eccessive dipendenze sarà dettato da una maggiore conoscenza dei depositi geologici a livello globale.

È in quest’ottica che si inserisce il recente progetto annunciato da Stati Uniti, Canada e Australia, con la collaborazione dello US Geological Survey (USGS) americano e le rispettive agenzie canadese e australiane, che hanno sviluppato un solido database che raccoglie dati geologici e geofisici sulle risorse minerarie nazionali, per unificare e standardizzare i dati su minerali critici come litio, cobalto, nichel e terre rare.

“La geologia, così come i nostri dati, non si fermano ai confini” ha commentato Anne McCafferty, scienziato dello USGS, e responsabile del progetto. “Questo database congiunto rappresenta il nostro continuo sforzo per migliorare la cooperazione scientifica e la condivisione dei dati” tra le tre agenzie, ha dichiarato Christopher Lawley, ricercatore del Geological Survey of Canada.

Si tratta di più di 40 livelli di dati, incluse le variazioni del campo magnetico terrestre per la superficie di Canada e Stati Uniti con le quali gli scienziati possono sviluppare rappresentazioni e modelli tridimensionali della geologia del sottosuolo. Inoltre, la standardizzazione consente di fare comparazioni tra i depositi nei tre Paesi, valutando quelli più promettenti dall’esplorazione fino al potenziale sfruttamento.

La dottoressa Karol Czarnota, dell’istituto geologico australiano, ha sottoloneato il potenziale trasformativo di questi database, indicando che con essi si potranno “effettuare analisi di controllo sulla distribuzione dei minerali critici che erano semplicemente impossibili prima”, attraverso l’utilizzo di tecniche avanzate, tra cui l’impiego dell’intelligenza artificiale e machine learning.

L’obiettivo del progetto è chiaro: approfondire la comprensione delle risorse di materie prime, fare luce sulla configurazione mineralogica dei depositi e distribuzione degli stessi tra i tre vasti territori nazionali, finalizzare potenziali nuove scoperte di risorse e così contribuire allo sforzo di diversificazione, nel medio-lungo periodo, delle forniture di minerali.

Grazie all’expertise dei tre istituti, che rappresentano eccellenze a livello globale (considerando anche la forte vocazione mineraria di Australia e Canada), gli Stati Uniti sono in grado di poter sfruttare gli sforzi congiunti nel campo della ricerca scientifica, per valorizzare centinaia di milioni di tonnellate di risorse nel sottosuolo.

Il progetto è parte della Critical Minerals Mapping Initiative (CMMI), un’iniziativa scientifica congiunta dei tre Paesi, avviata nel 2019, per la mappatura dei rispettivi territori nazionali. Un team di ricerca del CMMI ha già utilizzato il database per rivelare potenziali depositi di zinco, minerale che è conosciuto per ospitare altri metalli critici come gallio e germanio, su cui la Cina ha pieno controllo e ha annunciato di vietare le esportazioni.

Non esiste, infatti, possibilità di reshoring o friend–shoring delle filiere delle materie prime critiche senza prima un’approfondita conoscenza dei depositi economicamente sfruttabili (riserve) o noti (risorse). A Washington, l’alleanza e i rapporti privilegiati con Australia e Canada rende le possibilità commerciali nel settore minerario un punto di forza per diversificare le forniture in un’ottica di sicurezza economica.

Di recente, gli Stati Uniti e l’Australia hanno firmato un accordo di cooperazione sui materiali critici, le filiere delle clean-tech e sui temi climatici, che si aggiunge ai dialoghi proficui portati avanti anche con la Gran Bretagna per chiudere il cercio dei five eyes nel settore, ormai strategico per molti settori, dalla difesa alle energie pulite.

Australia e Canada già vedono in essere un accordo di libero scambio (FTA) con gli Usa, il che rende le aziende minerarie e di trasformazione dei due Paesi potenzialmente eligibili per accedere ai crediti e incentivi fiscali dell’Inflation Reduction Act (Ira). Proprio la misura legislativa, secondo una recente analisi di S&P, aumenterà la domanda americana di materie prime critiche come litio, cobalto, nichel e grafite per l’espansione delle attività manifatturiere, mentre sarà più complesso che tale domanda, proprio per i requisiti stringenti dell’Ira, venga soddisfatta solo da attività domestiche o da Paesi partner.

Proprio la necessità di capitali, in un settore come quello minerario che soffre la volatilità dei prezzi e cicli d’investimento molto dilatati che frenano le risorse finanziarie dei privati, è un motivo per una maggiore partecipazione del pubblico e delle agenzie federali. L’accordo Usa-Australia, infatti, prevede di coinvolgere la US Export-Import Bank come possibile istituto di credito, oltre all’impegno strappato dal primo ministro australiano, Anthony Albanese, a Joe Biden di chiedere al Congresso di inserire l’Australia come “fornitore domestico” secondo il titolo III del Defense Production Act, in modo tale da consentire ai progetti australiani di accedere ai finanziamenti federali.

Un’iniziativa che ha già visto beneficiare l’azienda australiana, Lynas Corporation, per costruire un impianto di separazione di ossidi di terre rare pesanti (REO), come disprosio e terbio, negli Stati Uniti. Più di recente, l’azienda americana MP Materials (finanziata in parte dal Pentagono) ha siglato un accordo con la giapponese Sumitomo per l’integrazione della filiera dai concentrati agli ossidi, essenziali per la fabbricazione dei magneti permanenti.

Finanziamenti che, in generale, dovrebbero confluire secondo due criteri che rispondono alle dinamiche in essere lungo la supply chain e a imperativi di sicurezza: in primo luogo, favorire il friend-shoring delle miniere estere (siano esse australiane o canadesi) e non gli impianti di raffinazione, che dovrebbero essere invece costruiti (reshored) sul suolo americano in un’ottica di de-risking dalla Cina. Questo alla luce del fatto che le attività di estrazione sono geograficamente localizzate a seconda del deposito geologico, mentre la raffinazione è in buona parte determinata da capitali e regolamenti. Per esempio, la Cina detiene solo il 3% delle riserve di cobalto e ne estrae circa l’1% sul suolo nazionale, ma di converso controlla il 77% della capacità di raffinazione del cobalto estratto principalmente in Congo.

In secondo luogo, è probabile che vi sarà un maggior scrutinio sugli investimenti esteri anche nelle attività minerarie americane, oltre a quelle canadesi o australiane. La preoccupazione è che capitali cinesi, o imprese controllate da foreign entity of concern (FEOC) possano collaborare in progetti minerari beneficiando dei contribuenti americani tramite i fondi dell’Ira. Lo scorso novembre, il governo canadese aveva bloccato due acquisizioni di entità cinesi per due progetti d’estrazione di litio, mentre il governo australiano è già intervenuto in due occasioni per un deposito di terre rare e un altro di litio.

Seppur rimanga difficile spezzare l’influenza di Pechino in altri importanti mercati, come quello del nichel, grazie alla forte convergenza d’interessi tra Cina e Indonesia,  resta fondamentale per la diversificazione delle forniture puntare su ricerca, esplorazione e investimenti, sia a livello domestico che all’estero.

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