La corsa alle batterie elettriche da parte di Stati Uniti ed Unione Europea è anche uno sforzo per ridurre la dipendenza da Pechino. Due approcci diversi, due obiettivi simili, tra protezionismo e innovazione. Intanto le industrie cinesi espandono la loro presenza nei mercati limitrofi…
Insieme ai semiconduttori, le batterie al litio sono sicuramente l’asset al centro della competizione globale per agguantare i benefici della transizione green-tech. Si tratta di una tecnologia inventata in Occidente tra gli anni 70’ e 80’ da Exxon Mobile e l’Università di Oxford, ma poi perfezionata e lanciata su scala industriale in Cina nell’ultimo ventennio grazie soprattutto a Catl e Byd. Ora è la chiave per l’elettrificazione della flotta automotive (Ev) e per l’integrazione dell’elettricità prodotta da fonti rinnovabili nelle reti, grazie all’utilizzo dell’accumulo stazionario (Ess).
Tuttavia, in seguito alla pandemia e alla guerra sui chip, le supply chain di questi settori hanno subito una serie di sconvolgimenti che hanno portato i policymakers occidentali a riflettere sui rischi della transizione energetica e di un’eccessiva dipendenza da Pechino. Nel caso delle batterie, la Repubblica Popolare Cinese è responsabile dell’80% della produzione di catodi, dell’89% di anodi e del 79% di celle (le unità fondamentali di un pacco batteria) secondo i dati di Benchmark Minerals Intelligence.
Un dominio che si riflette ancor di più sul controllo delle materie prime abilitanti, o ‘critiche’. La Cina produce quasi il 70% della grafite per batterie, lavora oltre il 90% del manganese, raffina oltre il 60% del concentrato di litio per la produzione di materiali precursori e produce quasi il 90% dei magneti permanenti di terre rare utilizzati nei motori dei veicoli elettrici. Di recente, Pechino ha annunciato una stretta sulle tecnologie di estrazione e raffinazione delle terre rare magnetiche. Inoltre, il principale materiale utilizzato in volume nelle batterie dei veicoli elettrici è la grafite e oltre il 90% del minerale utilizzato in queste batterie è prodotto in Cina. Proprio su questo ingrediente fondamentale Pechino ha imposto un controllo sulle esportazioni, in risposta all’offensiva statunitense sui chip.
In questo contesto geopolitico in cui le materie prime diventano armi di ritorsione commerciale, il controllo della supply chain a monte diventa essenziale. Soprattutto per una questione di costi e competitività a valle. Per le batterie al litio, si stima che le materie prime ormai costituiscano l’80% del costo totale delle celle, grazie soprattutto all’economia di scala e al learning by doing. I materiali catodici rappresentano circa la metà del costo materiale in una tipica batteria al litio-ferro-fosfato (LFP), tra le più prodotte e utilizzate dalle industrie cinesi. Se ferro e fosfato sono materiali ampiamente disponibili sui mercati, la barriera all’ingresso rimane il litio: elemento su cui si è concentrata l’attenzione di Ganfeng e Tianqi Lithium, le due aziende leader e teste di ponte dello Stato cinese sui mercati internazionali del litio, con all’attivo una decina di progetti tra Cile (nonostante la nuova strategia del governo sulle risorse nazionali), Argentina e Australia.
A causa delle fluttuazioni dei prezzi dei metalli (soprattutto del litio), i costi dei materiali per le batterie LFP e NCM (quelle preferite dai produttori coreani come e in parte giapponesi) hanno raggiunto un picco alla fine del 2022, seguito da un calo di cinque mesi fino alla fine di aprile 2023 grazie alla correzione dei prezzi del litio e alla contrazione dei costi di lavorazione dei materiali. A partire da maggio 2023, i prezzi dei materiali per le batterie si sono lentamente ripresi, alimentati da un breve rimbalzo dei prezzi del litio, seguito da un ulteriore calo da giugno a settembre. Se la dipendenza dai fornitori cinesi è un tema, l’altro è l’elemento economico: le batterie contano per circa il 30-40% del valore di un veicolo elettrico, un aspetto centrale nella pianificazione degli automakers. Grazie alla concentrazione del mercato in pochi produttori lungo la supply chain, l’industria cinese gode di una maggiore flessibilità e di margini di profitto superiori.
È su questo terreno, grazie ad un decennio di esperienza e di know-how chimico-ingegneristico oltre alle politiche industriali varate da Pechino, che i campioni cinesi delle batterie stanno costruendo il loro vantaggio competitivo. Dunque, in un contesto di libero mercato e di relazioni commerciali stabili, l’invasione di Ev, batterie o semilavorati cinesi sarebbe pressoché inevitabile, soprattutto per la sovracapacità delle industrie cinesi che ora guardano ai mercati esteri per scaricare il surplus di produzione a prezzi stracciati. Ma è proprio su questo aspetto che i decisori europei e americani hanno posto un veto, per il timore di veder replicata l’esperienza traumatica dell’industria fotovoltaica in quella automobilistica. Un’eventualità che, per via del peso del settore in termini economici, industriali e politico-sociali, avrebbe conseguenze drammatiche.
Gli Stati Uniti con l’amministrazione Biden hanno lanciato una strategia industriale volta a garantire un futuro all’automotive americano, ricreando sul suolo nazionale un ecosistema delle batterie il più possibile svincolato dalla supply chain di Pechino. A parte Tesla – il cui business rimane fortemente integrato al mercato e ai fornitori cinesi – gli USA non vantano produttori di batterie nazionali, ma hanno puntato sin da subito ad attirare gli investimenti dei grandi produttori americani ed europei (come General Motors e Stellantis) in partnership con i leader asiatici come LG Energy Solution e Samsung SDI e limitando il più possibile che i soldi dei contribuenti finissero nelle mani di aziende come Catl. Tra le clausole per accedere ai miliardi di incentivi dell’Inflation Reduction Act (IRA), infatti, di recente è stata introdotta quella per l’esclusione di fornitori che siano foreign entity of concern (FEOC), ovvero entità cinesi o aziende con un’influenza consistente di capitali o investitori che siano collegati alla Cina.
L’Unione Europea, dal canto suo, ha varato un’iniziativa legislativa che si pone un obiettivo simile (la riduzione dei rischi di approvvigionamento), ma con un occhio più attento alla sostenibilità delle forniture e l’impiego di un apparato normativo meno tranchant dell’Ira statunitense (e con molti meno fondi pubblici). Il passaggio dell’European Critical Raw Materials Act è stato salutato con successo dagli uffici di Bruxelles, ma rimane ancora da capire quanto l’Ue riuscirà a perseguire i target proposti, soprattutto in termini di estrazione e raffinazione dei metalli per le batterie. In entrambi i casi, costi e competitività per le industrie downstream rimangono due elementi fondamentali per capire quanto e come l’Occidente potrà sostenere una ‘guerra’ di sussidi con la Cina che gode, come detto, di almeno un decennio di vantaggio sulle batterie al litio. La Commissione europea si è detta pronta a difendere l’industria automobilistica europea dall’invasione di veicoli elettrici cinesi, con l’apertura di un’indagine anti-dumping.
Il sorpasso di Byd ai danni di Tesla nel quarto trimestre del 2023 è solo uno dei tanti segnali. Il colosso cinese ha registrato 526.000 vendite di Bev, quasi tutte in Cina, davanti alla creatura di Elon Musk che si è fermata a 484.000 (che comunque rimane davanti nel computo annuale). Musk aveva pubblicamente denigrato l’azienda cinese nel 2011 in risposta alla possibilità che potesse in futuro sfidare Tesla nel mercato dei veicoli elettrici.
Intanto, l’industria delle batterie globali inizia a rispondere alle politiche di Usa e Ue. L’effetto più concreto è una progressiva regionalizzazione, soprattutto in paesi che offrono costi di produzione più bassi e, in alcuni casi, accesso alle materie prime. È il caso di LG Chem che investirà in un impianto di produzione di catodi LFP in Marocco per servire il mercato Usa ed europeo, o di Redwood Materials che ha aperto un impianto di riciclo di batterie in Germania. In generale, sono le aziende coreane come LG e Samsung che rappresentano l’opportunità più concreta per il de-risking dalla Cina in quanto a know-how e gigafactory. Seoul ha di recente varato un nuovo piano di sussidi per le sue industrie di punta, seppur esse siano fortemente integrate nel network in cui gravitano i produttori e fornitori cinesi di materiali precursori come idrossido di litio, grafite sintetica e solfato di cobalto.
Tuttavia, allo stato attuale le case automobilistiche sono in una situazione complessa. Da una parte, le direttive da Bruxelles sul bando ai motori termici a partire dal 2035 e l’opportunità della transizione all’elettrico richiedono investimenti e una revisione dei piani industriali. Dall’altra, la scelta di acquistare materiali più economici dalla Cina (contraddicendo gli auspici dei governi nazionali) per produrre veicoli elettrici a basso costo ora, contribuendo a ridurre le emissioni, oppure puntare su forniture occidentali, laddove esistenti, con risultati ancora non comprovati, soprattutto agli occhi degli shareholders. Secondo Henry Sanderson, in un editoriale uscito su Foreign Affairs, “al momento, il costo sta vincendo”. “Di conseguenza”, continua Sanderson, “le aziende sono incentivate a nascondere la loro esposizione cinese per poter ottenere i materiali”.
Un allineamento tra interessi politici e industriali non così semplice, senz’altro non garantito a suon di sussidi pubblici. Soprattutto perché quest’ultimi non sono garanzia di successo dal momento che è difficile incentivare l’offerta in mercati in cui non esiste la domanda. Allo stato attuale, vi sono poche aziende che operano nel segmento midstream (quello della raffinazione) per molti dei metalli per batterie, sia negli Stati Uniti che in Europa, dal momento che è molto contratta la domanda per i materiali precursori (per catodi e anodi). Ed è qui che, invece, si inseriscono con maggiore agilità le aziende cinesi.
È il caso di Btr New Material Group, una compagnia semi-sconosciuta ma tra i principali fornitori di Tesla, Catl e Byd per quanto riguarda gli anodi di grafite con circa il 23% del mercato e che possiede un’enorme impianto in Indonesia. Btr ha annunciato un investimento significativo in Marocco, da oltre $500 milioni di dollari, per l’apertura di impianto di produzione di catodi in Marocco per una capacità annuale di 50.000 tonnellate che verrà gestito da una sua sussidiaria, Bnuo International Holding. La mossa si allinea ad un trend ormai consolidato tra i produttori di batterie cinesi, che rispondono con dinamicità alla crescente competizione domestica attraverso acquisizioni e investimenti oltreoceano per servire i mercati di sbocco, tra qui quello europeo (difficilmente quello americano, considerando le clausole anti-cinesi dell’Ira). Altre entità cinesi, come Cngr Advanced Material Company e Gotion High-Tech, puntano a costruire impianti ancillari per la produzione di celle per batterie nel paese nordafricano (circa 100 gigawattora), partner della Via della Seta cinese. Non una scelta casuale: il Marocco possiede importanti riserve di cobalto ma soprattutto fosfato (50 miliardi di tonnellate, circa il 70% delle riserve globali conosciute).
Se la Cina risponde ai paletti occidentali (soprattutto americani) con un’operazione di arrocco industriale – muovendo contemporaneamente i suoi Re delle batterie e le torri, i fornitori nei mercati di sbocco – l’Europa sembra puntare e scommettere soprattutto sull’innovazione nel processo di de-risking. Qui le speranze sono principalmente su Northvolt. La start up svedese fondata da Peter Carlsson e Paolo Cerruti ha di recente annunciato il primo test di successo di una batteria al sodio, seppur concepita per il mercato ESS. Le batterie al sodio sono le uniche che non contengono litio o altri minerali critici, un vantaggio che include una maggiore sostenibilità del processo di produzione oltre ad una riduzione dei prezzi proprio per l’abbondanza del sodio e del ferro utilizzati nel catodo.
Qualora questa tecnologia venisse adottata su vasta scala – l’attrattività, soprattutto per l’adozione negli EVs, rimane la densità energetica (le batterie al litio, nelle varie composizioni chimiche, garantiscono circa 250-300Wh per kg negli EV mentre 180Wh per kg negli accumuli stazionari) e prezzi elevati del litio – la dipendenza dalle supply chain dominate da Pechino verrebbe meno. Ma non è solo Northvolt che è attiva nello sviluppo e commercializzazione di questa tecnologia. Rimarrà centrale quanto gli operatori riusciranno a scalare la tecnologia a livello industriale.
Ed è su questo elemento che giocano facile i produttori cinesi. Catl, insieme alla batteria al litio ferro fosfato superveloce annunciata ad agosto 2023, sta lavorando al sodio dal 2021. Insieme a Chery e Byd, si stima che possiedano circa 39.7 GWh di capacità operativa. Inoltre, la Cina rimane il principale mercato EV per vendite, un aspetto che rimane difficile da ignorare: la stessa Volkswagen ha annunciato una linea di produzione di veicoli equipaggiati con batterie al sodio attraverso la joint venture Anhui Jianghuai Automobile (Jac), di cui controlla il 75%. Una realtà a cui ha dovuto arrendersi pure Stellantis, con l’investimento sulla start-up cinese Leapmotor.
Nel breve-medio periodo, le batterie al litio rimarranno la principale soluzione tecnologica: una finestra temporale fondamentale dove si decideranno buona parte dei vincitori e vinti dell’industria Ev.