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La filiera delle batterie elettriche mette alla prova Ira e Green deal. Ecco come

Stati Uniti ed Unione Europea si trovano di fronte la stessa sfida: aumentare le proprie capacità produttive per le batterie al litio e al contempo limitare (dove possibile) la dipendenza da Pechino. Gli strumenti a disposizione, tuttavia, sembrano favorire Washington, che intanto…

La risposta dell’Unione Europea all’Inflation Reduction Act (IRA), siglato dal presidente Biden nell’agosto del 2022, è stato un tema al centro dell’evento organizzato da Benchmark Minerals Intelligence, GigaEurope 2024 che si è tenuto a Stoccolma, in Svezia, tra martedì e mercoledì di questa settimana. Secondo le stime della società di ricerca britannica, sono 240 le gigafactory operative a livello globale, con ulteriori 160 in costruzione in Cina e 36 operative in Europa entro la fine del decennio.

In questa corsa epocale, il Green Deal Industrial Plan, che include tra gli altri due pilastri normativi quali il Critical Raw Materials Act e il Net Zero Industry Act, è stato pensato proprio come strategia industriale che possa fare da contraltare a quella americana, in una corsa verso la decarbonizzazione che non implichi, necessariamente, la deindustrializzazione dei due continenti, soprattutto vis-a-vis con la Cina che attualmente domina gran parte della catena del valore delle batterie elettriche. Tra i target fissati dal secondo pilastro, sono fissati 550 GWh di produzione di celle per l’assemblaggio delle batterie, sia per l’impiego nel settore automotive sia per il settore dello stoccaggio stazionario per integrare le rinnovabili nelle reti elettriche. In un contesto in cui la domanda globale di batterie al litio, al 2030, crescerà di circa 19 volte e il 95% circa verrà dai veicoli a batteria.

Proprio per scongiurare che gli ambiziosi obiettivi di neutralità climatica, declinati in parte attraverso i rispettivi regolamenti per la riduzione delle emissioni nel settore della mobilità, possano portare ad un’eccessiva dipendenza da Pechino, Washington e Bruxelles sono corsi ai ripari per supportare la transizione del settore automotive che rappresenta per entrambi posti di lavoro, filiere e mercati con la presenza dei grandi gruppi come General Motors, Ford, Stellantis, Volkswagen e Bmw. L’Ue ha annunciato misure ritorsive nei confronti dei veicoli elettrici cinesi, nonostante alcuni grandi gruppi (come Mercedes) abbiano chiesto a Bruxelles di non iniziare una guerra commerciale con la Cina.

Dal canto suo, l’Europa sarebbe sulla buona strada per produrre 6,7 milioni di auto elettriche a batteria (Bev) entro il 2030 (secondo gli annunci dei grandi gruppi europei, che tuttavia rimangono sulla carta soprattutto rispetto a possibili cambi di rotta sulle direttive comunitarie dopo le elezioni di giugno), ovvero poco più della metà di tutte le auto prodotte, in linea con l’obiettivo di ridurre del 55% le emissioni CO2, che potrebbe portare a una quota del 50-60% delle vendite di Bev. Gli Stati Uniti, invece, tramite l’impegno dell’amministrazione Biden hanno tracciato la rotta verso il 50% delle vendite di Bev entro il 2030. Ma quello che segna una netta differenza tra i due approcci, sono gli strumenti per perseguirli sia dal punto di vista fiscale sia per le riflessioni in termini di sicurezza industriale (in particolare, di approvvigionamento di materie prime e materiali). In entrambi i mercati, tuttavia, la crescita delle vendite rimarrà fortemente legata alla capacità di produrre veicoli a basso prezzo: un requisito che ruota intorno alla scelta tecnologica delle batterie e ai vantaggi di scala.

In Europa la capacità produttiva di batterie entro il 2027 è stimata essere intorno ad 1 TWh, concentrata principalmente tra Germania, Polonia, Ungheria e Francia, e che potrebbe aumentare a 1.8 TWh entro la fine del decennio. Tra le aziende asiatiche che hanno investito, si ricordano Catl, Samsung SDI, Envision AESC, LG Chem, mentre Nortvolt, ACC e Freyr rimangono tra le uniche europee.

Nel contesto europeo, il round più importante di investimenti pubblici è stata l’adozione di due serie di importanti progetti di interesse comune europeo (IPCEI) nel 2019 e nel 2021 che, attraverso gli investimenti degli Stati membri e in parte del settore privato, avrebbero dovuto convogliare rispettivamente un totale di €8,2 miliardi e di €11,9 miliardi di euro verso la catena del valore delle batterie. Nell’ambito del bilancio Ue 2021-2027, il ruolo delle banche pubbliche nel sostenere la catena di valore delle batterie è destinato comunque ad aumentare. Grazie a una garanzia di bilancio dell’Ue di €26,2 miliardi, la BEI e le altre banche pubbliche europee mirano a mobilitare oltre 372 miliardi di euro di investimenti pubblici e privati in tutta Europa nell’ambito del programma InvestEU. Di recente, anche iniziative nazionali con fondi pubblici e/o sovrani (come in Germania e Francia) puntano a colmare il gap di finanziamenti a livello europeo. Un piccolo passo verso un vero finanziamento europeo è stato fatto con il lancio di un fondo comune per le materie prime critiche, ma si tratta di un’iniziativa ancora troppo limitata.

Secondo le stime di Transport&Environment, sulla base di queste capacità di produzione di celle, l’Ue potrebbe essere autosufficiente (a livello downstream) per la domanda di batterie a partire dal 2027. Per quanto riguarda i componenti della batteria, due terzi dei materiali catodici (la parte più preziosa e rilevante per le prestazioni delle batterie, che contiene metalli come cobalto, nichel e appunto litio) potrebbe teoricamente essere prodotta in Europa con gli investimenti delle aziende asiatiche. È in questa proiezione che l’Europa è in testa agli Usa in termini di progetti in cantiere, mentre rimarrebbe solo per il 50% autosufficiente in termini di approvvigionamenti di litio raffinato, dove oggi si concentra (e concretizza) il controllo di Pechino sulla filiera in termini di sicurezza degli approvvigionamenti e competitività a valle.

Negli Stati Uniti, invece, dal passaggio dell’IRA sono stati annunciati oltre 90 progetti lungo l’intera filiera, con poco più di 1 TWh di capacità ma ben oltre $80 miliardi di investimenti privati. Se da un punto di vista di capacità il gap non sembra esserci, quello che preoccupa maggiormente le aziende coinvolte sono le capacità di eseguire e operare gli impianti, tenendo conto soprattutto degli incentivi fiscali in essere.

Uno dei motivi alla base dell’attrattività dell’IRA, rispetto a quanto fino ad ora ottenuto dalle norme europee, è la sua relativa semplicità e concretezza. Nel caso specifico delle batterie elettriche, sono due i punti fondamentali su cui ruota la politica industriale americana: il credito d’imposta per veicoli puliti (Sezione 30D dell’IRA), che in precedenza era stato limitato ai produttori (OEMs) che avevano venduto più di 200.000 veicoli elettrici, che eroga fino a $7.500 per l’acquisto di un veicolo elettrico idoneo, ovvero sottoposto all’assemblaggio finale in Nord America e che soddisfi i requisiti critici per i minerali e i componenti della batteria. Per ricevere metà del credito, pari a $3.750 dollari, la batteria installata deve contenere una certa percentuale (in valore totale) di minerali critici estratti o lavorati negli Stati Uniti, o in un paese con cui è in essere un accordo di libero scambio (FTA), oppure riciclati nel Nord America. La percentuale è stabilita al 40% fino alla fine del 2023, per poi aumentare al 50% nel 2024, al 60% nel 2025, al 70% nel 2026 e all’80% dopo il 2026. Un approvvigionamento affidabile di minerali critici imposto alle case automobilistiche per poter vedersi elargire il credito, facendo ricorso ad entità che non siano tuttavia inquadrabili come Foreign Entity of Concerns (FEOC), un aspetto che dice molto dell’approccio geopolitico dell’amministrazione. Il secondo punto è il credito d’imposta sulla produzione manifatturiera (Sezione 45X) che prevede un incentivo per la produzione nazionale di componenti per l’energia pulita e di minerali critici, con l’obiettivo di ridurre la dipendenza dalla Cina tramite il friend-shoring.

Nello specifico, i produttori di celle per batterie possono così ricevere un credito d’imposta di 35 dollari/kWh, di 10 dollari/kWh per i moduli (o 45 dollari/kWh nel caso di un modulo di batterie senza celle), e il 10% dei costi di produzione per gli elettroliti. Se assumiamo un BEV con pacco batteria da 75 kWh, il credito d’imposta totale potrebbe ammontare a circa a $2,625. Il Congressional Budget Office (CBO) stima che il finanziamento di questi crediti d’imposta nel prossimo decennio possa costare poco più di $30 miliardi di dollari: una cifra che comunque garantirebbe, in teoria, la nascita di una filiera più integrata negli Stati Uniti (nonostante la forte integrazione di produttori come Tesla con l’ecosistema cinese). In Europa, invece, il flusso d’investimenti di aziende cinesi che operano nel settore delle batterie è significativamente aumentato nell’ultimo anno, a dimostrazione di come a Bruxelles non vi siano in atto considerazioni di natura prettamente geopolitica rispetto alla posizione molto più intransigente di Washington rispetto alla sicurezza delle supply chain.

È qui che si gioca la differenza tra Usa ed Europa, con quest’ultima che deve cercare di limitare il peso finanziario di questi progetti strategici sulle spalle dei privati se vuole costruire una filiera dalle miniere ai mercati finali davvero competitiva. L’unica grande incognita rimane l’esito delle elezioni presidenziali di novembre: qualora dovesse prevalere Donald Trump, è possibile che (per una questione di conservatorismo fiscale, molto sentito dai repubblicani) il nuovo presidente possa rivedere le clausole dell’Inflation Reduction Act (IRA). Tuttavia, considerando che gran parte degli investimenti privati sono fluiti in stati repubblicani (con conseguente impatto sui posti di lavoro), non è da escludere che il settore delle batterie e automotive non venga sottoposto ad un roll-back definitivo.

Un esempio eclatante della disparità tra obiettivi e strumenti, a livello transatlantico, è l’enfasi sul revival dell’industria mineraria degli Usa, favorita con un alleggerimento delle normative e delle leggi ambientali proprio durante l’amministrazione Trump. In particolare, contando su una ricchezza geologica sopita, gli Stati Uniti stanno rilanciando la produzione nazionale di litio, ingrediente fondamentale e su cui l’Ue dipende per oltre il 90% dal Cile e dalla Cina per i composti di litio. Difficilmente l’Europa potrà raggiungere gli ambiziosi obiettivi del Critical Raw Materials Act sul piano minerario, considerando che i due progetti più promettenti (in Portogallo e in Serbia) sono ormai fermi per questioni burocratiche e ambientali.

Proprio ieri, il Dipartimento dell’Energia americano ha annunciato di aver concluso l’iter per assegnare a Lithium Americas (azienda canadese) circa $2.26 miliardi di prestito per lo sviluppo del progetto estrattivo nella miniera di Tracker Pass, in Nevada. Si tratta del più grande deposito di litio conosciuto negli Stati Uniti (con oltre 3.7 milioni di tonnellate di litio carbonato equivalente stimate) e che potrebbe produrre circa 40.000 tonnellate di litio carbonato equivalente a partire dal 2027, con possibilità di raddoppiarne l’output annuale. La miniera, che ha ottenuto tutti i permessi autorizzativi, sarà attiva per circa 40 anni. Le quantità di litio estratte potrebbero consentire la produzione di batterie elettriche per oltre 800.000 Bev, secondo le stime del Dipartimento. Nel 2023 General Motors aveva annunciato un investimento di circa $650 milioni nel progetto, con l’obiettivo di assicurarsi il prezioso metallo per 15 anni. Lithium Americas, che ha all’attivo altri progetti in Sud America (tra cui uno in Argentina, su cui ha di recente messo le mani la cinese Ganfeng Lithium) e in Canada, stima che il finanziamento federale possa coprire gran parte dei costi. Altri produttori, come Albemarle Corp (che ha firmato un accordo do fornitura con Bmw) e Piedmont Lithium, stanno realizzando rispettivamente in Carolina del Sud e nel Tennessee altri due progetti per la produzione di idrossido di litio per un investimento complessivo di quasi $2 miliardi di euro.


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