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I raid di Israele in Siria rischiano di portare indietro le lancette della storia. Scrive Polillo

L’intervento di Israele sulla Siria rimette il tema dello scontro etnico-religioso al centro della scena. Se così fosse sarebbe proprio lei a doverci rimettere. Di fronte al grido di “Dio lo vuole” l’umanità non è mai progredita. Comprensibili le preoccupazioni di Washington che, invece, punta ad una ricomposizione degli equilibri regionali basati su un diverso modus vivendi. L’analisi di Gianfranco Polillo

Fino a che punto il richiamo della foresta – vale a dire la difesa della propria etnia o il proprio credo religioso – può fare aggio su qualsiasi altro obiettivo? Ed orientare le scelte di governo: rischiando di rimettere tutto in discussione, comprese le possibili future alleanze? La domanda va rivolta direttamente a Benjamin Netanyahu, all’indomani dei raid compiuti contro Damasco. Un ulteriore pugno nello stomaco, in una regione non solo sconvolta da guerre senza fine, ma sempre più fragile dal punto di vista dei suoi futuri equilibri.

Le ultime dichiarazioni del premier israeliano, per la verità, lasciano pochi dubbi in proposito. “Israele – ha ribadito secondo quanto riportato dall’Ansa – continuerà a usare mezzi militari per far rispettare le sue due linee rosse in Siria: “Smilitarizzare l’area a sud di Damasco, dalle alture del Golan ai monti drusi, e proteggere i fratelli dei nostri fratelli i Drusi”. Ha quindi accusato il regime di Jolani di averle violate entrambi: “Ha, infatti, inviato un esercito a sud di Damasco e ha iniziato a massacrare i Drusi. Non potevamo accettarlo in alcun modo”. Da qui la necessità di intervenire per giungere al cessate il fuoco annunciato dal regime, che “è stato ottenuto con la forza”. Per concludere con la minaccia “continueremo ad agire se necessario”.

Che cosa non convince? La Siria è sempre stata un confuso mosaico di etnie e religioni. Gli arabi sono la maggioranza. Ma poi vi sono i curdi: la minoranza etnica più consistente, concentrati nel nord-est del Paese. Quindi gli armeni: presenti ad Occidente. I turkmeni, che vivono nelle regioni centrali settentrionali. I circassi e gli assiri. Non meno numerosi i gruppi religiosi: i sunniti rappresentano la maggioranza della popolazione musulmana. Per contro, la presenza degli sciiti, che, a loro volta, includono alawiti e ismailiti. I drusi sono una minoranza religiosa con radici nell’islamismo ismailita. I cristiani, a loro volta, rappresentano una minoranza significativa, suddivisi in varie chiese orientali (greco-ortodossa, cattolica, siriaca, armena, ecc.). Ed infine gli ebrei che rappresentano una piccola comunità, in gran parte concentrata a Damasco, Qamishli ed Aleppo.

Una convivenza, come si può immaginare, non facile. Non si dimentichi che Bashar al-Assad, il presidente deposto da Ahmad al-Shara e poi riparato a Mosca, apparteneva al gruppo degli alawiti. Il che spiega la grande repressione avvenuta in Siria, all’indomani delle primavere arabe. Gestite soprattutto dai fratelli musulmani, con ascendenza sunnita. Ed oggi Ahmad al-Shara appartiene, appunto, a questo secondo gruppo etnico religioso. Il cui compito, come leader seppur provvisorio dello Stato, sembra essere quello di voler superare il peso di una prevalente militanza religiosa, per raggiungere le colonne d’Ercole di uno Stato ad identità nazionale. Qualcosa che in passato era stato più volte tentato nel mondo arabo: dall’Egitto di Nasser, al Ba’th siriano, fondato proprio a Damasco nel 1947, e poi imitato, seppure con una posizione più nazionalista, in Iraq.

In una situazione così complessa e frammentata, il minimo sindacale affinché un progetto così ambizioso possa avere una possibile chance di successo è dato dal disarmo dei vari gruppi etnici religiosi. Finché questi ultimi potranno disporre di proprie milizie – si pensi al caso del Libano o della Libia – sarà solo la guerra civile a decidere delle sorti future della comunità nazionale. Ed ecco allora spiegato il tentativo di Ahmad al-Shara: far intervenire, nelle eventuali situazioni di crisi, gli apparati di sicurezza sotto l’egida della bandiera nazionale, per poter disarmare le altre milizie.

Suwayda è una provincia a sud della Siria, in prossimità con il confine israeliano. La maggioranza della relativa popolazione è costituita da drusi. In origine sciiti, ma poi diventati autonomi, al punto da non essere più considerati musulmani. Al pari dei curdi, sono sparsi in diversi Paesi; Siria (in forte maggioranza), Libano, Israele e Giordania. Con Israele, in particolare, hanno un rapporto antico che risale ai tempi di David Ben Gurion, e la sua “dottrina delle periferie” secondo la quale Israele doveva mantenere un sistema di alleanze con tutte quelle etnie che erano contro la maggioranza sunnita che domina il Medio Oriente.

Nei giorni precedenti la reazione israeliana, si erano verificati degli scontri armati tra i drusi e bande di beduini sunniti. Scontri che avevano prodotto oltre 250 morti e un numero imprecisato di feriti. Per farli cessare Ahmad al-Shara aveva inviato le forze dell’ordine e l’esercito, con l’idea di disarmare i litiganti, ma soprattutto i drusi. Ne erano derivati ulteriori scontri, dovuti anche alla diversità etnica religiosa tra i drusi stessi e le forze governative. Con episodi da guerra civile. Come ad esempio: tagliare barba e baffi ai prigionieri in una pubblica piazza. Azione ritenuta dai Drusi particolarmente infamante. Oppure le mille reciproche violenze che sono tipiche di quel tipo di conflitto.

Di fronte a simili episodi, comprese ovviamente le uccisioni, i drusi di Israele avevano deciso di rompere ogni indugio e scendere in piazza per partecipare direttamente allo scontro in difesa dei propri fratelli. Il conflitto era divenuto pertanto più cruento fino al punto da spingere Israele ad intervenire. Gli aerei con la stella di David avevano quindi compiuto la rappresaglia, bombardando direttamente Damasco. Azione che aveva costretto il governo siriano a porre fine agli scontri. Il “cessate il fuoco ottenuto con la forza” di cui ha parlato Bibi, ossia Netanyahu, nella sua intervista televisiva. Ma anche ad abbandonare, almeno per il momento, il tentativo di imporre il disarmo dei gruppi armati.

Ed ecco allora la contraddizione. L’intervento di Israele rischia di portare indietro le lancette della storia: rimettendo il tema dello scontro etnico-religioso al centro della scena. Se così fosse sarebbe proprio lei a doverci rimettere. Di fronte al grido di “Dio lo vuole” l’umanità non è mai progredita. Gli scontri sono stati sempre più cruenti e violenti. Né alcuna pietas è stata riservata ai propri nemici. Le guerre laiche, se così si può dire, hanno sempre avuto uno svolgimento ed una logica diversa. Con possibilità di giungere a compromessi, che comunque escludevano il martirio estremo dei propri nemici.

Si spiegano allora le preoccupazioni di Washington che, invece, punta ad una ricomposizione degli equilibri regionali basati su un diverso modus vivendi soprattutto tra Israele e i rimanenti Stati arabi. Dove una Siria, fino a ieri dominata dalla presenza russa, può ancora svolgere un ruolo diverso dal passato. Gli “accordi di Abramo”, che al momento sono l’unica speranza di quelle terre martoriate, sono in aperta contraddizione con la logica che hanno portato alla rappresaglia. Il che spiega la reprimenda del Dipartimento di Stato americano, ma anche le reazioni della Turchia, principale sponsor del nuovo regime siriano.

Il punto è che Israele, non solo nei confronti della Siria, deve decidere. Vuole continuare ad essere una fortezza assediata oppure tentare la carta, certamente più difficile, di una diversa convivenza? Ai posteri l’ardua sentenza. Anche se i segnali del presente non sono rassicuranti.


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