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E se abolissimo il voto finale? La proposta di Ciccotti per l’esame di maturità

Due giovani maturandi si rifiutano di sostenere la prova orale all’Esame di Stato. Un gesto gratuito, dadaista? O segno di disagio per un esame ormai fuori dal tempo? Il parere e la proposta di Eusebio Ciccotti, ex-preside, saggista, critico cinematografico

Due ragazzi all’avanguardia

Filippo Tommaso Marinetti, avrebbe dato ragione ai due ragazzi che hanno contestato l’obsoleto (secondo il loro legittimo parere) Esame di Stato, non “parlando” all’“orale”? Nel Manifesto del Futurismo («Le Figaro», 20 febbraio, 1909, pubblicato dallo scrittore anche grazie all’amicizia con la figlia del direttore del quotidiano francese) leggiamo «Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie, (…)». Naturalmente l’iperbole metaforica stava per “noi contestiamo il vecchio modo di fare cultura”.

Nel 1916 a Zurigo due romeni, Marcel Janco e Tristan Tzara, in pieno conflitto mondiale, lanciano il Dadaismo, un nuovo movimento d’avanguardia. “Filosofia” del Dadaismo è la scelta del nonsense, dell’assurdo, del gesto anti-razionale. Forme espressive con le quali si voleva contestare l’ipocrisia dei rapporti umani, la finta educazione e, con una forte componente di critica sociale, l’indifferenza dei ricchi verso i poveri, i clochard, gli emigranti. Non per niente, a partire dal 1917, il loro modello finzionale divenne un personaggio del cinema che agiva con un umorismo non logico, a-razionale, ma “vero”, “oggettivo”: quello della maschera Charlot: L’emigrante (1916), Charlot soldato (1918), Il monello (1921), furono film osannati da tutti gli avanguardisti. «I soldati in libera uscita, quando tornavano in caserma, ancora ridendo, erano presi nel raccontare, ai commilitoni, le avventure di Charlot: per un momento tutti dimenticavano la tragedia assurda della guerra” (Blaise Cendrars).

I due diplomandi veneti che si sono rifiutati di sostenere l’orale, sono dei contestatori “futuristi-dadaisti” in ritardo storico, aggiungo io? Hanno voluto “distruggere” l’esame di Stato con una pacifica dimostrazione d’avanguardia, tipo “sintesi futurista”, alla Marinetti? O, con il ricorso al silenzio a-logico, dadaista, insomma, un omaggio a Janco e Tzara? O, al contrario, come molti docenti e dirigenti del mondo della scuola hanno letto l’azione, sono dei semplici esibizionisti contestatori in cerca di cinque minuti di visibilità sui media?

Non credo che i due giovani siano dei dadaisti fuori tempo. Forse non accettano un esame finale, simbolo di una corsa folle alla competizione, trasformatosi ormai in una lotta tribale con la clava, tra studenti e studenti, tra famiglie e famiglie, a chi prende “di più”.

Con code surreali. Ossia, con “l’accesso agli atti” e i “ricorsi al TAR” per qualunque voto: incluso il caso di un 92 che, secondo la famiglia e la studentessa, «doveva essere 95»: solo per non pagare le tasse universitarie (ero presidente di commissione). Famiglie incattivite dalla competizione iniziata al primo anno della primaria. Clan famigliari pronti, se il voto non è “oggettivo” (quindi sette persone hanno dormito), a mobilitare un esercito di parenti e amici di famiglia “qualificati” (docenti, giudici, giornalisti), a supporto del contestato “voto non giusto” assegnato alla “criatura”.

I ragazzi hanno rinunciato a questa selvaggia corsa all’oro (nel centenario di The Gold Rush). A questa guerra di tutti contro tutti, per arrivare al voto più alto. Cosa ci hanno voluto dire, con il loro gesto “dadaista”? Quello che gli adulti, inclusi noi specialisti della formazione, nella nostra educata reticenza, facciamo finta di non sapere, cadendo dalle nostre rassicuranti nuvole: ossia che l’esame di maturità mostra dei limiti.

Il silenzio che parla

I due ragazzi veneti, con la loro voluta scena muta, ci hanno parlato, con la stessa forza con cui parlava il cinema muto: inviandoci dei chiari messaggi. Vediamoli. L’esame finale orale si è ridotto, pare ci dicano, a una pappardella imparata a memoria, composta di frasi fatte, compressa in pochi minuti, saltando da una disciplina all’altra con la pretesa scientifica della “interdisciplinarietà”, metodo ermeneutico serio e articolato, non applicabile, in 50 minuti, a saperi diversi. Con forzature, queste sì “surrealiste”, appiccicate a modelli tematici banalmente stereotipati: testi, immagini, frasi, dipinti, che ruotano intorno ai soliti temi prevedibili, quali “la donna”; “il viaggio”; “il doppio”; “la metamorfosi”, “la libertà”, “la ragione”, “l’attesa”, ecc. “Argomenti”, tra l’altro, accatastati, come derrate alimentari in scadenza nei magazzini, sul web.

Questo rito finale è solo l’ennesima gara al numero più alto, che chiude cinque anni di stress competitivo, di corsa al più bravo.

Cinque anni in cui i prof si preoccupano solo di “finire il programma”, di avere tutte le prove svolte, di “fare la media” dei voti con la calcolatrice (qualcuno arrotonda, grazie a Dio).

La ragazza ci dice come, nella sua esperienza di studentessa, non si sia sentita accolta come persona da docenti privi di empatia. Può accadere. I docenti, sottolinea la ragazza, sono interessati solo alla “resa” del voto. Le do ragione, Nel mio lavoro quarantennale, prima di docente e poi di preside, ho, purtroppo, incontrato diversi prof. poco disposti ad ascoltare gli adolescenti. Esperti, però, nel valutare gli allievi “a simpatia”. Non dovevano scegliere questo mestiere, semplicemente.

Il ragazzo (Corriere della sera, 11 luglio 2025, intervista di Giorgia Iatosti), mostrando notevole equilibrio e lucidità, critica la stressante «competizione scolastica», e sottolinea come i ragazzi, ossia delle persone, «siano ridotti a voti».

Il ministro Giuseppe Valditara, titolare del Mim, dotato di competenze e qualità diplomatiche, cui vanno riconosciute scelte calibrate e innovative nella Istruzione, forse, in questa vicenda, è stato mal consigliato nel biasimare, troppo velocemente, quasi in diretta, la scelta dei due ragazzi. Sarebbe stato più formativo, più diplomatico, a mio modesto avviso, invitare i giovani, a palazzo Bazzani, e ascoltarli. Se possiamo vedere i due ragazzi come dadaisti, in legittima ricerca di innovazione, il ministro ora rischia, agli occhi dei milioni di giovani votanti del 2027, d’apparire un passatista (sempre per citare Marinetti).

La vita è solo competizione?

Massimo Gramellini (Corriere della sera, 11 luglio 2025), pur apprezzando il gesto della ragazza, le ricorda, saggiamente, che la vita è competizione, che il mondo «dell’università e del lavoro» sarà più competitivo della vita scolastica. Insomma, le dice di abituarsi alla inevitabile lotta, anche perché, chiosando inconsciamente il Vangelo, «molti ti volteranno le spalle nel momento del bisogno».

Mi viene in mente quando Agostino di Ippona, ottimo avvocato, un giorno percepisce la insincerità delle arringhe avvolte nel vuoto bel parlare, e decide di allontanarsi dal finto mondo forense, delle tronfie scuole di retorica. Naturalmente, non possiamo fuggire dalla scuola, o girarci dall’altra parte. Ma, educare i nostri giovani allo studio, all’aiuto reciproco, e non alla competizione, sia a scuola che nella università: come suggeriva Don Giussani: ciò è possibile, anzi doveroso. Solo così avremo adulti che non si comporteranno come automi, i quali a loro volta avranno dei bambini da educare alla collaborazione e al rispetto. All’aiuto reciproco.

Ma per una scuola aperta all’ascolto, alla empatia, alla inclusione, alla formazione non finalizzata a umiliare il compagno che sta rimanendo indietro, occorrono formatori autentici. Si diventa buon educatore formando i futuri docenti, certamente, anche sul piano psico-pedagogico. Ma attenzione: si nasce anche docenti, ci vuole una certa predisposizione: l’orecchio e la mano adatta, come per il musicista e il pittore.

Come si diventa preside

E i presidi (dirigenti scolastici)? Quelli che sono stati ottimi insegnanti, con anni di esperienza, divenuti presidi, sono in grado di seguire sia i docenti che gli allievi? Forse sì. A ciò va aggiunto il fattore X, quello di cui sopra: la predisposizione.

Intanto, ricordiamo cosa prevede la normativa vigente. Essa consente a un docente che abbia cinque anni di ruolo di partecipare al concorso. Cinque anni, a mio avviso, sono pochi.

Prendiamo il caso (reale) di un buon docente di sostegno, il quale però, per cinque anni, ha seguito un solo ragazzo/a. Dunque, non solo con pochi anni di servizio nella scuola, ma un docente che non ha mai “gestito” più classi, mai ascoltato e valutato centinaia di studenti, mai parlato con centinaia di genitori. Ebbene, a tale professore o maestra, se passa il concorso (è accaduto) eccolo/a preside (D.S.) di mille e più ragazzi, di mille e più genitori. Sommessamente, avanzo una mia perplessità.

Le motivazioni per diventare preside

Secondo la mia esperienza, il 70% dei docenti sceglie di tentare la “carriera” della dirigenza per diversi motivi. Chi per ovviare alla “noia” di essere docente, incluso “lo stress nel correggere ‘mazzi’ di compiti”; chi, tra i candidati più anziani, coltiva il segreto desiderio di “vendetta” nei riguardi dei “torti” subiti dai propri presidi; chi, tra i giovani docenti, invece, scalpita di sentirsi “importante” e di esercitare il “comando” nel microcosmo scolastico; molti altri sono indotti da motivi economici: “sposare i figli” e/o acquistare una autovettura da 50.000 euro; per altri ancora di godersi, “finalmente” le (ripetute) vacanze in posti esotici, ecc.

Questo tipo di dirigente, con limitata esperienza didattica ed educativa, o con decenni di docenza ma vissuti controvoglia, come può consigliare e “guidare” centinaia di docenti? Come presiederà gli scrutini in cui si decide dell’esito finale di un anno scolastico per un ragazzo e la sua famiglia? Come ascolterà le famiglie? Che contributo serio può offrire alla “comunità educante”?

Infatti tali dirigenti, sovente, si chiudono nelle presidenze, “oberati” (così dicono) dagli aspetti amministrativi ed economici, e non possono occuparsi né dei docenti né degli allievi, perché “non possiamo fare tutto”. In realtà erano scarsi sul piano didattico, empatico, comunicativo. Dal primo giorno, quando entrarono a scuola.

In Spagna il preside viene eletto dal collegio dei docenti. A fine mandato, se la sua dirigenza non ha soddisfatto i docenti, non viene confermato e torna a svolgere il lavoro di docente.

Il preside all’estero

In Germania e Spagna il preside deve insegnare, almeno otto ore a settimana. La docenza ti consente di seguire la vita dello studente. La sua crescita. Non di rimanere chiuso nella tua presidenza, come in Italia, dove, non appena arrivi, preoccupato per la mancanza del salottino, rinnovi subito l’arredamento a carico dello Stato: trasformandoti in un burocrate. Il preside dovrebbe frequentare le classi dei suoi allievi.

Se lo studente è lasciato solo

Naturalmente il caso della ragazza del Veneto riguarda una minoranza, seppur cospicua, di allievi. Nell’Istituto in cui lavoravo, 2200 studenti con 210 docenti, circa il 10% dei docenti veniva “contestato” dagli allievi su questi aspetti: la non obiettività nella valutazione (e quando più classi indicano lo stesso nome negli anni, forse il problema esiste); la non chiarezza nella spiegazione; l’assenza di empatia; la mancanza di entusiasmo nell’insegnare; l’eccessivo nervosismo del docente in classe.

Se lo studente è lasciato solo, debbono intervenire gli altri docenti, e anche il preside, che ricopre un ruolo importante nel risolvere i conflitti e risanare gli strappi. La scuola deve ridare fiducia ai ragazzi che si rivedono nei due che hanno contestato l’orale, capire il disagio dietro il loro gesto.

L’ipocrisia, la cattiveria, il coraggio

Ogni anno i voti finali dei diplomati/maturati innescano reazioni forti: accesso agli atti, ricorsi al Tar, accuse verso di docenti interni, “che non hanno saputo difendere i ragazzi”; liti tra famiglie, rotture di amicizie consolidate tra i banchi per cinque anni. Non fingiamo di non saperlo, non siamo ipocriti. Sono frequenti casi di studenti e studentesse seguiti con amore dai propri docenti per anni e poi, se il voto non è quello che l’esaminato e le famiglie “giustamente” si attendevano (poiché all’orale “noi c’eravamo e nostra figlia è andata benissimo! ha risposto a tutto, meglio di XX!, e ha preso di meno!”) viene subito cancellato il saluto a quel docente che per anni è stato amato e osannato.

Vi sono casi in cui si interrompono i rapporti tra famiglie amiche. Per cinque anni hanno accompagnato a turno i loro figli/le loro figlie a scuola, hanno studiato nelle loro case, ospitandosi a vicenda; concerti e vacanze insieme: ora, per tre voti in meno rispetto alla compagna, non si parlano.

Quello che più addolora e che anche i ragazzi e le ragazze, sempre per uno o due voti in meno, congelano la loro calda amicizia; spesso cessano di frequentarsi. Finisce l’età serena della adolescenza. Si è entrati nella età adulta della competizione senza esclusione di colpi. Siamo nella “felice” età adulta della cattiveria sotterranea, del risentimento.

Allora, il gesto criticato dei due giovani (cui nelle ultime ore si è aggiunto quello di un terzo diplomato), per me è un gesto nobile, un gesto di bontà piena. Sì, un gesto di coraggio. Quanti sono disposti a rinunciare a un voto in più? Nessuno. Forse, caro Ministro, dovremmo prendere in considerazione la possibilità di abolire il voto finale. Magari sostituendolo con tre semplici giudizi: Non promosso/ Promosso/ Promosso con Lode.


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