Dopo la crisi del 2008, che ha alterato tutti gli equilibri economici e finanziari, si è aperto un vuoto destinato inevitabilmente a favorire le strategie offensive di Putin. Che dureranno: almeno fin quando l’Occidente non dimostrerà di avere la necessaria forza deterrente. L’analisi di Gianfranco Polillo
Magari Mario Draghi avesse ragione! Magari il 2025 fosse l’anno del disincanto: l’anno in cui è “evaporata”l’illusione di credere che la dimensione economica fosse sufficiente per portare “con sé potere geopolitico nelle relazioni commerciali internazionali”. Fosse così, qualche indizio sarebbe evidente. Almeno nelle élite più avvertite. Chiamate ad affrontare una situazione imprevedibile e atipica, il loro comportamento, alla fine è stato più che dignitoso, ma in una più generale indifferenza, se non in un vero clima di ostilità che spesso le ha circondate.
Si prenda il caso dell’incontro di Washington alla Casa Bianca per discutere di guerra e di una possibile futura pace, citato dallo stesso Draghi. Fu un atto coraggioso che andava contro le mortifere regole di cui sono lastricate le vie europee. Atto puramente volitivo. Una delegazione che andava oltre i confini della Ue, e non includeva tutti i suoi membri. Una scelta che, in altri momenti, sarebbe stata oggetto di dure rampogne. E invece era l’inizio di qualcosa di nuovo. Che rovesciava antiche prassi per muoversi nel terreno libero della politica.
Ci si doveva aspettare un riconoscimento unanime da parte di tutte le forze politiche dei Paesi che avevano partecipato a fianco di Zelensky. E invece quante polemiche! Quanti mugugni, nel tentativo di rubare la scena a coloro che, con intelligenza, avevano lavorato per giungere a quel confronto. Segno evidente di una rozzezza di propositi, ma soprattutto di quella lontananza rispetto alle preoccupazioni espresse da Mario Draghi. Con l’idea ch’era meglio curare l’orticello politico di casa propria, piuttosto che misurarsi con i grandi problemi dell’immediato futuro.
Una sindrome condannevole, ma anche l’esistenza di un forte ritardo culturale che impedisce loro di cogliere il senso più profondo di quel disincanto di cui si diceva all’inizio. Con il 2025, infatti, si può dire che una fase della storia europea si è definitamente conclusa. Quell’epopea che aveva portato, già nel lontano 1949 (nascita della Nato), a delineare quel cammino che avrebbe portato ai nostri giorni. Già allora uno dei motivi che obbligarono a superare la pura dimensione nazionale dei singoli Stati. Si trattava di far fronte all’orso sovietico. E questa sfida richiedeva di andare oltre le rivalità di Paesi litigiosi, che, nel corso del precedente cinquantennio, avevano prodotto ben due guerre mondiali.
I due Trattati di Roma del 1957 non furono altro che la conseguenza di quell’esigenza prioritaria, onde evitare che una parte dell’Occidente potesse divenire preda dei comunisti. Che operavano come quinte colonne all’interno del blocco democratico. La loro opposizione sia alla Nato che alla stessa Comunità europea (questo il nome di allora) ne fu quotidiana dimostrazione. Solo alla fine degli anni ‘70, soprattutto a seguito di alcune “forzature” di Giorgio Amendola, il Pci iniziò a cambiare idea. Avviando un complicato percorso di revisione politica, che coincise con la progressiva, anche se tardiva, presa di distanza dalla Terza Internazionale. Negli altri Paesi, come la Francia o la Spagna, il processo fu addirittura più lento.
La fase costituente dell’Europa era resa difficile da un vissuto troppo recente. Due guerre mondiali, nate soprattutto per la conquista di un’egemonia non solo continentale, avevano lasciato strascichi drammatici. Odi profondi. Rivalità e voglia di rivincita, destinate a far fallire qualsiasi tentativo di dare un assetto più politico a quello che si stava costruendo. Era, infatti, evidente che qualsiasi tentativo, in questa direzione, era destinato a scontrarsi con il tema della leadership. Chi doveva avere lo scettro? La Francia, la Germania (per molti anni totalmente assorbita dal problema di riconquistare la propria entità nazionale) la Gran Bretagna? Problema insolubile.
E allora, come testimonia Mario Draghi, meglio scegliere un terreno diverso: quello dell’economia. Nella speranza che, con il trascorrere del tempo, il moltiplicarsi dei contatti grazie alla crescente integrazione economica e finanziaria, quelle drammatiche esperienze del passato potessero, in qualche modo, essere metabolizzate. Scelta resa possibile, grazie all’ombrello militare americano. Cui era demandato il compito di contenere le eventuali minacce sul fronte orientale, in quella lunga fase che passerà alla storia con il nome di “guerra fredda”. Nessun conflitto risolutivo, ma tanti episodi, il più delle volte ibridi, per marcare un clima di relativa latente tensione.
Agli americani era stato addossato il costo di quella fase, concedendo loro – difficile negarglielo – il potere di una direzione effettiva, nella politica estera del blocco occidentale. Così le risorse risparmiate potevano essere utilizzate per finanziare quel modello di economia che rispondeva alla definizione di “economia sociale di mercato”. Modelli diversi da Paese a Paese (colbertismo, modello renano, economia mista e via dicendo), ma con caratteristiche simili nella costruzione di un welfare che diventava elemento esclusivo della realtà europea, rispetto alle stesse esperienze americane.
Come si può vedere, tutto si reggeva su quella condizione di base. La “guerra fredda” aveva solo due protagonisti principali: l’Urss da un lato, gli Stati Uniti dall’altro. Inoltre le regole d’ingaggio – nessun intervento diretto oltre le rispettive zone di influenza – erano definite. Come avevano dimostrato i casi dell’Ungheria (1956) e della Cecoslovacchia (1968). Situazione che, con il crollo del muro di Berlino e l’implosione di quel mondo, si sperava si fosse definitivamente stabilizzata. La nascita del G8, allargato a Vladimir Putin, doveva certificare una ritrovata normalità.
Tutto, invece, è crollato a seguito della Gfc (Global Financial Crisis) del 2008. Che aveva spinto il Cremlino a rifiutare il modello occidentale per rituffarsi nei miti della grandeur passata. Sovietica o zarista: che fosse. Non fu un caso, infatti, se gli interventi militari in Georgia (2008), Crimea (2014) e ora in Ucraina (2022) hanno avuto una relazione più o meno diretta con quell’avvenimento e le sue ulteriori conseguenze. Interventi ai quali l’Occidente, non solo gli Stati Uniti, avrebbero dovuto rispondere con la necessaria fermezza, onde evitare la loro continua reiterazione.
Non ci fu, invece, per motivi diversi. Ma anche perché gli Usa, da soli, non erano più in grado di padroneggiare una situazione internazionale – si pensi al Pacifico – che richiedeva un ripensamento strategico della loro politica estera. Considerando anche gli effetti che la Gfc aveva avuto sui loro equilibri economici e finanziari. Da qui l’aprirsi di un vuoto, destinato inevitabilmente a favorire le strategie offensive di Putin. Che dureranno: almeno fin quando l’Occidente non dimostrerà di avere la necessaria forza deterrente.
E ecco allora il ruolo diverso dell’Europa. La fase nuova, piena di incognite, che si apre di fronte ai nostri occhi. Richiederà intelligenza politica, coraggio ed abnegazione, quale premessa indispensabile per le politiche indicate da Mario Draghi nelle sue relazioni. Ma soprattutto la consapevolezza che il passato è passato. Questa è la nostra “grande illusione”. Declinata solo in modo diverso rispetto a quell’ottimismo della volontà, che Draghi invita a perseguire. Il riferimento è a quel grande film di Jean Renoir del 1937, capace di immaginare, nell’imminenza della seconda Guerra mondiale, che uno spirito più alto potesse vincere sugli orrori di quel momento.