L’Europa deve riscoprire sé stessa come economia di domanda e di produttività, in cui la crescita non dipenda dai surplus commerciali, ma da un potenziale produttivo rinnovato e diffuso, capace di sostenere sviluppo, innovazione e coesione sociale. Il commento di Pasquale Lucio Scandizzo
La presentazione della prossima legge di Bilancio offre l’occasione per riconoscere una realtà ormai evidente: l’Italia è intrappolata in una “stagnazione ricca”, dove l’accumulo di risparmio e la prudenza fiscale non si traducono in crescita e innovazione. Capire le cause di questa trappola è il primo passo per uscirne. L’Italia si trova in una “trappola di stagnazione” analoga, in termini macroeconomici, a quella storica del Mezzogiorno: produttività stagnante, tasso di cambio reale sopravvalutato e domanda interna debole. Il costo del lavoro per unità di prodotto è elevato per via della scarsa produttività, non per eccesso salariale.
La compressione dei salari ha ridotto la quota destinata al lavoro senza ristabilire competitività, mentre profitti e risparmi si accumulano senza generare investimenti. Con un surplus estero in calo e margini fiscali ridotti, l’Italia resta intrappolata in un equilibrio di bassa crescita e alta liquidità: una “stagnazione ricca” che riproduce, su scala nazionale, la trappola storica del Mezzogiorno.
La trappola del modello orientato all’export anche per l’Europa
Non solo l’Italia, ma l’intera area euro, soprattutto sotto la leadership della Germania, ha costruito il proprio modello di crescita su una strategia orientata all’export, basata su grandi surplus commerciali ottenuti grazie alla competitività esterna e alla moderazione salariale. Questo meccanismo ha funzionato finché l’economia mondiale è rimasta aperta, integrata e trainata da una forte domanda esterna. Ma oggi, in un contesto di frammentazione geopolitica, regionalizzazione delle catene del valore e stagnazione della domanda globale, lo stesso meccanismo si è rivelato essere una trappola macroeconomica. Secondo il Regional Economic Outlook for Europe del Fmi (ottobre 2025), la crescita potenziale dell’area euro a medio termine è scesa a meno dell’1%, principalmente a causa del rallentamento del commercio mondiale, che ha perso oltre un terzo della sua elasticità rispetto al Pil globale dal 2020. In altre parole, il mondo importa di meno, e produce sempre più per sé stesso.
Crescita trainata dalle esportazioni: il caso italiano
L’Italia rappresenta, a livello nazionale, un esempio delle distorsioni di questo paradigma. Negli anni 2000, la crescita italiana è dipesa quasi esclusivamente dalle esportazioni manifatturiere: nel 2019 il saldo commerciale ha superato il 3% del Pil, mentre la domanda interna è rimasta stagnante. Per mantenere la competitività, l’aggiustamento è avvenuto sul mercato del lavoro: i salari reali sono calati di circa il 3% in vent’anni, la produttività del lavoro è aumentata solo del 4%, e la quota del Pil destinata al lavoro è scesa di otto punti percentuali (Eurostat, Ameco 2025). Questo ha prodotto un regime di svalutazione interna permanente: salari bassi per sostenere l’export, ma domanda interna debole e crescita limitata. Il paradosso è che, pur avendo un saldo estero positivo, l’Italia si trova intrappolata in una stagnazione secolare, in cui la ricchezza finanziaria cresce, i risparmi vengono crescentemente utilizzati per finanziare investimenti all’estero, e i redditi reali ristagnano. Questa dinamica richiama la storica “trappola del Mezzogiorno”: una moneta sopravvalutata, salari bassi, alti risparmi e investimenti deboli.
Il vincolo europeo e i modelli sovrapposti
La trappola non è però solo italiana. Il modello tedesco orientato all’export, basato sulla moderazione salariale e su ampi surplus commerciali con il resto del mondo, ha imposto all’area euro un equilibrio asimmetrico. I Paesi del Nord accumulano surplus esterni, mentre quelli del Sud compensano con deficit o stagnazione. L’euro, nato per favorire la convergenza, ha finito per cristallizzare la divergenza: un tasso di cambio unico troppo forte per le economie a bassa produttività e troppo debole per quelle in surplus. Le conseguenze sono due: all’interno dell’Europa, la domanda aggregata resta debole perché i risparmi del Nord non si trasformano in investimenti nel Sud; a livello globale, l’Ue è eccessivamente dipendente dalle esportazioni verso Stati Uniti e Asia, che assorbono circa il 45% dell’export extra-Ue. Quando la domanda esterna rallenta, come dopo la pandemia e durante le tensioni commerciali, l’intero sistema entra in difficoltà. L’effetto si vede anche ora nei numeri: secondo il Centro Studi Confindustria l’Italia potrebbe perdere fino a 16 –20 miliardi di euro di export a causa dei dazi Usa annunciati e delle tensioni commerciali. Inoltre, dati dell’Istat segnalano un calo del –21,1% delle esportazioni italiane verso gli Stati Uniti in agosto 2025 rispetto ad agosto 2024. Questi segnali confermano che la dipendenza dalla domanda esterna e i vincoli sul cambio reale non sono fattori del passato, ma ostacoli attuali che rendono la “trappola” strutturale dell’Eurozona anche una minaccia concreta per la crescita italiana.
La distorsione distributiva: profitti in crescita, salari stagnanti
La conseguenza più profonda della strategia export-led è stata una traslazione del reddito dal lavoro al capitale. In Italia, la distribuzione personale del reddito, misurata con l’indice di Gini, è rimasta stabile intorno a 0,33, ma la distribuzione funzionale si è spostata nettamente a favore dei profitti. La quota del lavoro è scesa al 44%, mentre quella dei profitti ha raggiunto livelli record. Questo spostamento ha due effetti principali. Primo, indebolisce la domanda interna, perché i profitti hanno una propensione al consumo molto più bassa rispetto ai salari. Secondo, alimenta la finanziarizzazione e l’esportazione di capitali: gli utili in eccesso vengono convertiti in risparmio e investiti soprattutto in attività estere, prevalentemente negli Stati Uniti, invece di finanziare investimenti produttivi in Italia o in Europa.
Il risultato è un “equilibrio perverso”: la competitività esterna si regge sulla debolezza interna, mentre la domanda interna insufficiente frena la crescita complessiva. A lungo andare, questa combinazione genera un effetto più profondo: la riduzione e il deterioramento del prodotto potenziale. L’assenza di investimenti produttivi interni non solo riduce la quantità di capitale fisico disponibile (impianti, infrastrutture, tecnologie), ma ne peggiora anche la qualità, poiché gli investimenti si concentrano in settori a bassa intensità tecnologica e a basso contenuto di conoscenza. Allo stesso tempo, la bassa dinamica salariale e l’incertezza occupazionale disincentivano l’accumulazione di capitale umano, limitando la formazione continua e l’innovazione nelle imprese. Ne risulta una crescita debole della produttività totale dei fattori (Ptf), che è la componente più importante del prodotto potenziale.
Secondo la Banca d’Italia (Bollettino Economico, luglio 2025), la Ptf italiana è rimasta sostanzialmente ferma dal 2000 e la crescita potenziale del Paese si colloca oggi intorno allo 0,7% annuo, contro l’1,3% medio dell’Eurozona. In sintesi, la distorsione della distribuzione del reddito e la mancata canalizzazione dei risparmi verso l’economia reale non solo comprimono la domanda corrente, ma alterano la composizione stessa del prodotto potenziale, ossia il massimo livello di produzione che una economia può generare senza inflazione, poiché frenano l’accumulazione di capitale fisico e umano e frenando la produttività di lungo periodo.
L’effetto domino: una trappola continentale
Il problema italiano è un sintomo di una trappola più ampia a livello europeo. L’Ue nel suo complesso è diventata una potenza mercantilista in un mondo post-mercantilista. Nel 2025, il surplus commerciale dell’area euro ha superato i 300 miliardi di euro, ma la crescita del Pil resta sotto l’1%. L’Europa accumula risparmio che viene investito all’estero, in titoli americani, materie prime e asset esteri, invece che nella propria economia. Questa condizione, che ricorda la “trappola del surplus” descritta da Keynes a Bretton Woods, è economicamente insostenibile e politicamente destabilizzante: genera stagnazione interna, disuguaglianze crescenti e tensioni tra Paesi creditori e debitori. Come nota il FMI (2025): “L’Europa affronta una prospettiva di crescita mediocre a medio termine, poiché dazi e frammentazione del commercio iniziano a minare la sua specializzazione orientata all’export.”
Un nuovo paradigma: verso un modello europeo trainato dalla domanda
Per uscire da questa trappola, l’Europa deve riequilibrare il proprio modello di crescita, passando da una dipendenza dall’export a una maggiore enfasi su un nuovo equilibrio tra politiche dell’offerta e di espansione della domanda interna, trainata dagli investimenti intra-europei. Tuttavia, il riequilibrio non può essere solo quantitativo, più spesa o più investimenti, ma deve essere qualitativo, cioè orientato a ricostruire il prodotto potenziale dell’economia europea. Il prodotto potenziale non è una grandezza astratta: è il risultato dell’interazione tra capitale fisico, capitale umano, produttività totale dei fattori (Ptf) e partecipazione al lavoro. In Italia, tutte queste componenti si sono indebolite negli ultimi due decenni. Gli investimenti pubblici e privati si sono concentrati in settori a bassa intensità tecnologica; la formazione e l’innovazione non hanno tenuto il passo con le economie avanzate; la produttività è stagnante, e la Ptf è ferma ai livelli di vent’anni fa. Per invertire la rotta, l’Italia deve integrare la politica di bilancio con una strategia di rafforzamento qualitativo del potenziale di crescita.
Ciò significa:
– riqualificare la composizione del capitale fisico, orientando gli investimenti verso infrastrutture digitali, energetiche e logistiche, in grado di aumentare la produttività sistemica;
– valorizzare il capitale umano, aumentando l’investimento in istruzione terziaria, formazione tecnica e aggiornamento continuo, oggi tra i più bassi in Europa;
– sostenere la produttività totale dei fattori attraverso la diffusione dell’innovazione, il rafforzamento delle filiere e la transizione tecnologica delle PMI;
– favorire l’inclusione nel mercato del lavoro, specialmente femminile e giovanile, ampliando così la base occupazionale del potenziale di crescita.
Solo un paese che investe simultaneamente su queste quattro leve può aumentare stabilmente il proprio prodotto potenziale, migliorando insieme competitività e coesione.
Le priorità europee restano chiare:
1.Stimolare la domanda interna europea attraverso politiche fiscali coordinate che aumentino i salari reali e gli investimenti pubblici. L’Europa può permetterselo: con un tasso di risparmio aggregato superiore al 25% del Pil, c’è margine per un ciclo espansivo senza rischi inflazionistici.
2.Riequilibrare le relazioni transatlantiche: Ue e Stati Uniti devono evolvere da concorrenti a co-investitori strategici in tecnologia, difesa e catene del valore energetiche. Il Safe Plan e il Chips Act europeo dovrebbero diventare pilastri permanenti di una politica industriale condivisa.
3.Integrare il mercato unico dei capitali, per trattenere i risparmi europei e canalizzarli verso investimenti produttivi sul continente, invece che verso il debito Usa o asset speculativi.
4.Riformare la governance fiscale dell’Ue, superando la logica pro-ciclica dell’austerità e adottando una golden rule che escluda dagli obiettivi di deficit gli investimenti pubblici produttivi in innovazione, transizione verde e infrastrutture sociali. In sintesi, l’Europa deve riscoprire sé stessa come economia di domanda e di produttività, in cui la crescita non dipenda dai surplus commerciali, ma da un potenziale produttivo rinnovato e diffuso, capace di sostenere sviluppo, innovazione e coesione sociale.
Conclusione: dall’export-led alla crescita orientata al welfare
L’era della crescita europea trainata dall’export è finita. L’unica via d’uscita dalla stagnazione è ricostruire il legame virtuoso tra salari, produttività, offerta e domanda interna, sostenendo la crescita con politiche fiscali comuni e un sistema fiscale più equo. Non si tratta di chiudersi al mondo, ma anzi di aprirsi maggiormente, riequilibrando i flussi commerciali, riducendo la dipendenza dalle esportazioni extra-Ue e liberando il potenziale del mercato interno europeo, che con 450 milioni di consumatori e un Pil aggregato di 19 mila miliardi euro è già il più grande motore di crescita del pianeta. Come ricordava Keynes, “nessuna nazione può restare per sempre una nazione di surplus.” Oggi, questa verità vale per l’Europa intera. Solo un’Unione che investe in sé stessa, nelle famiglie, nel lavoro, nella coesione produttiva, potrà tornare a una crescita stabile, ridurre le disuguaglianze e ritrovare un ruolo da protagonista in un’economia globale sempre più multipolare.