Le misure previste dalla legge di Bilancio non sono regali, ma un passo concreto verso una politica che riconosce la centralità del lavoro dipendente e premia la produttività, non l’assistenzialismo. È una linea di continuità con Mario Draghi, ma anche un segnale politico forte per l’idea che i salari possono aumentare con la maggiore produttività nelle nostre produzioni, oltre che attraverso la buona economia. Il commento di Raffaele Bonanni
Il governo Meloni sta per varare un bilancio che, per una volta, parla davvero di lavoro pur nelle ristrettezze della finanza pubblica. E lo fa in un Paese dove per anni si è preferito discutere di salari come si discute del tempo: con indignazione di facciata e senza mai affrontare le nuvole vere. L’Italia dei redditi stagnanti è figlia di una lunga stagione politica che ha usato la parola “salario” come un’arma elettorale, non come una politica pubblica. Oggi quella retorica mostra le sue crepe.
Il centrosinistra, che pure ha governato per decenni, si è limitato a denunciare il divario tra i salari italiani e quelli europei, evitando di ammettere che le sue stesse scelte ne sono una delle cause. Nessuna riforma strutturale, nessuna spinta alla produttività o alla partecipazione. Solo la scorciatoia del salario minimo per decreto, una soluzione evocativa quanto sterile, che ha finito per indebolire la contrattazione e congelare ogni tentativo di meritocrazia salariale.
Parte del sindacato, ormai avvinto alla sinistra populista, ha smesso di essere una forza riformatrice per trasformarsi in una cassa di risonanza delle piazze. È così che la parola “salario” è diventata un totem ideologico, svuotato di sostanza e impermeabile alla realtà. Ma la realtà, quando bussa, non chiede permesso.
Con l’attuale bilancio, il governo sceglie di agire dove altri hanno solo parlato: alleggerire il peso fiscale sui lavoratori dipendenti, i veri contribuenti netti della Repubblica. Dopo anni in cui elusione ed evasione hanno prosperato indisturbate, e le partite Iva hanno beneficiato di trattamenti di favore, arriva un segnale di riequilibrio. Si riduce la tassazione sui premi di produttività – dall’attuale 5% all’1% – con un tetto che sale a 5.000 euro annui. Per i redditi fino a 28 mila euro, gli aumenti contrattuali godranno di un’imposta ridotta al 5%; chi guadagna fino a 40 mila euro riceverà comunque benefici. A ciò si aggiungono nuove detrazioni Irpef fino a 2.000 euro e una riduzione stabile di aliquote e contributi.
Non sono regali, ma un passo concreto verso una politica che riconosce la centralità del lavoro dipendente e premia la produttività, non l’assistenzialismo. È una linea di continuità con Mario Draghi, ma anche un segnale politico forte per l’idea che i salari possono aumentare con la maggiore produttività nelle nostre produzioni, oltre che attraverso la buona economia. il salario non è un tabù da agitare, ma un ingranaggio da rimettere in moto con gli ingredienti insostituibili del merito con la migliore e maggiore produzione.
Sarà difficile per il centrosinistra e per Landini criticare questi interventi senza apparire prigionieri di un copione ideologico logoro. Opporsi oggi a un alleggerimento per chi lavora equivarrebbe a negare la propria storia. E se la sinistra non ritroverà presto il contatto con l’Italia che produce e fatica, non sarà Meloni a vincere: saranno loro a consegnarle la vittoria per inerzia.
In politica, come nella vita, chi parla solo di giustizia senza praticarla finisce per dare forza a chi agisce. E il tempo, si sa, premia sempre chi lavora davvero.