La riforma della Giustizia arriva al giro di boa e alla prova dell’Aula. Domani la votazione finale. L’obiettivo dell’esecutivo è quello di separare le carriere tra magistratura requirente e giudicante, oltre che formare due Csm e l’Alta Corte per i provvedimenti disciplinari. In linea di principio allontanare le procure dai tribunali è in astratto coerente col processo accusatorio che vuole pm e difensore equidistanti dal giudice terzo. Colloquio con Gian Luigi Gatta, ordinario di diritto penale alla Statale di Milano
Domani, il verdetto finale. Toccare la Costituzione non è mai un’operazione neutra, soprattutto quando in gioco c’è l’assetto della magistratura. La riforma della Giustizia è ormai alle battute finali del suo iter parlamentare. Il governo difende la separazione delle carriere come un passo verso maggiore equilibrio, ma non mancano le voci critiche. Gian Luigi Gatta, ordinario di Diritto penale all’Università Statale di Milano, ha però uno sguardo più distaccato ma, soprattutto – avverte nella sua intervista a Formiche.net – “la riforma del Csm, così come è concepita, potrebbe rafforzare il potere del pubblico ministero a discapito degli altri attori del sistema giudiziario a partire proprio dagli avvocati”.
Professore, partiamo dall’impianto generale: che tipo di riforma è quella che il governo propone?
È una riforma che tocca una parte delicata della Costituzione, perché riguarda l’assetto della magistratura, quindi un potere dello Stato. Non si tratta di una riforma della giustizia in senso ampio, come spesso si tende a dire: è piuttosto una riforma della magistratura. Si parla molto di separazione delle carriere, ma in realtà, di fatto, queste sono già separate. Il vero cambiamento riguarda il Csm, che viene sdoppiato.
Quindi la novità principale è (solo) il doppio Csm?
Sicuramente si creano due Consigli superiori, uno per i giudici e uno per i pubblici ministeri. A questi si affianca un nuovo organo, l’Alta Corte, che gestirà le questioni disciplinari dei magistrati. È un’idea che in passato era già emersa e non la considero, di per sé, l’aspetto più criticabile. Il problema sta altrove: non è prevista la possibilità di impugnare le decisioni disciplinari davanti alla Cassazione, e questo potrebbe essere un vulnus.
La riforma prevede anche il sorteggio dei membri togati. È un meccanismo che può funzionare?
Il sorteggio dei magistrati è un tentativo di contrastare il peso delle correnti. Ma va detto che, nella parte laica dei Csm, i componenti saranno comunque scelti dal Parlamento all’interno di una rosa di nomi individuata dalla politica. Dunque, se la componente togata sarà casuale, quella laica sarà invece fortemente “organica”. Il rischio è che la politica mantenga un’influenza rilevante sul governo autonomo della magistratura.
Alcuni sostengono che la riforma renda più netta la separazione delle carriere. Lei è d’accordo?
Non del tutto. Già oggi i passaggi da giudice a pubblico ministero e viceversa sono rarissimi. L’effetto concreto della riforma potrebbe essere un altro: dare più potere al pubblico ministero, creando un corpo autonomo e più coeso. È quella che chiamo una possibile eterogenesi dei fini: si vuole bilanciare, ma si rischia di squilibrare. Detto questo, in linea di principio è positivo allontanare il Pm dal giudice.
In che senso il pubblico ministero potrebbe uscirne rafforzato?
Perché con un Csm dedicato solo ai pubblici ministeri, questi ultimi potrebbero sviluppare una forte identità di corpo e un potere interno più coeso. Allontanare il Pm dal giudice è positivo in teoria, ma se questo isolamento lo rende più forte e meno controllato, gli effetti potrebbero essere negativi, soprattutto per gli avvocati e per l’equilibrio del processo penale.
Il governo sostiene che la riforma sia anche un modo per superare il peso delle correnti. È così?
Può esserci un effetto positivo in quella direzione, ma non dobbiamo illuderci: le correnti non spariranno dall’oggi al domani. Potranno essere sorteggiate persone che, di fatto, appartengono o simpatizzano per una corrente. Il sorteggio non eliminerà il fenomeno.
La riforma sarà sottoposta a referendum. È una scelta opportuna?
Credo sia stato un errore iniziale impostarla in questo modo. Quando si tocca la Costituzione bisognerebbe puntare su una riforma più condivisa, non imposta. Il referendum semplifica troppo: riduce tutto a un “sì” o “no”, e qualora prevalessero i sì, si trasformerebbe in una narrazione politica a favore del governo, a scapito della riflessione sui contenuti reali. Così come se prevalesse il no, si profilerebbe come una critica all’esecutivo proponente.
Se la riforma dovesse passare, quali scenari dobbiamo aspettarci?
Non sarà la fine del mondo. Penso che, come spesso accade, gli effetti saranno meno rivoluzionari di quanto si racconti. Ma resta un timore: che il pubblico ministero acquisisca più potere e che gli organi di autogoverno diventino meno efficienti, anche a causa del sorteggio. È una riforma che, pur avendo spunti positivi, rischia di generare nuovi squilibri proprio dove voleva eliminarli.
















