Dall’Africa ai Caraibi, l’amministrazione Trump ha moltiplicato minacce e dichiarazioni, sorprendendo chi la considerava isolazionista. Ian Lesser, vicepresidente del German Marshall Fund, spiega a Formiche.net che l’attivismo americano nasce da spinte interne più che da una strategia globale coerente
Dall’Africa ai Caraibi, la Casa Bianca sembra muoversi con inedita energia su più fronti. Un attivismo che sorprende molti osservatori, in un’amministrazione percepita come isolazionista. Ian Lesser, vicepresidente del German Marshall Fund, spiega a Formiche.net le logiche interne e geopolitiche dietro questa nuova assertività americana.
Nelle ultime settimane stiamo vedendo la Casa Bianca mostrarsi attiva rispetto a dossier che fino a poco fa non apparivano “prioritari”, come ad esempio il Venezuela o la Nigeria. A cosa è dovuto questo spostamento?
Ritengo che l’attivismo rappresentato in questi diversi contesti regionali sia stato sorprendente per molte persone, perché si pensava che quest’amministrazione sarebbe stata piuttosto isolazionista e introversa. E invece non è affatto così. È piuttosto attivista, anche se molto unilateralista. Credo che, in una certa misura, ci siano elementi chiari nell’ambiente politico di Washington, e in particolare nell’ambiente repubblicano, che stanno guidando in parte questo cambiamento. Ovviamente, il Venezuela e il regime di Maduro, sono preoccupazioni di lunga data per il segretario di Stato Rubio e per tutto il mondo repubblicano, specialmente in Florida, che è molto concentrato su questo tema. Mentre nel caso della Nigeria, è chiaro che gli evangelici cristiani, un importante elettorato politico negli Stati Uniti soprattutto proprio per il Partito Repubblicano, hanno fatto di questo un tema importante. E così, si vedono vari elementi della politica interna tradotti in questa assertività regionale. Detto questo, una cosa è minacciare, un’altra è agire.
Pensiamo un attimo alla Nigeria. Trump ha mostrato una concreta attenzione verso il Paese. Come colloca questo approccio all’interno di quello più ampio rivolto verso l’Africa?
Guardiamo alla situazione nell’insieme. Si tratta di prendere decisioni, alcune delle quali imminenti, in un ambiente alquanto complesso. Ad esempio, l’amministrazione Trump rinnoverà l’African Growth and Opportunity Act, un accordo di libero scambio con qualcosa come 30 Paesi dell’Africa subsahariana, che ora è scaduto? Sarà rinnovato nell’ambito dell’attuale approccio alle tariffe e al commercio internazionale? Ne sarei sorpreso. La fine dei finanziamenti degli aiuti statunitensi, ormai quasi giunta al termine, ha avuto un effetto sproporzionato nell’Africa subsahariana, dove era una fonte di risorse estremamente importante sia per lo sviluppo economico che per l’assistenza sanitaria e altro. Ed è piuttosto significativo che, a questo punto, l’amministrazione abbia davvero pessimi rapporti con i due paesi leader dell’Africa subsahariana, la Nigeria e il Sudafrica. È quindi molto difficile avere una strategia di impegno positivo con l’Africa quando i due leader regionali sono in contrasto con Washington e viceversa.
Per quanto riguarda invece il Venezuela e la crisi dei Caraibi, pensa che un’azione di Washington, specialmente se militare, potrebbe far infuriare Pechino o Mosca?
Beh, non c’è dubbio che il cambio di regime in Venezuela sarebbe contrario soprattutto agli interessi russi, ma in una certa misura anche agli interessi cinesi. Ma soprattutto alla Russia, perché la Russia ha interessi commerciali e di sicurezza diretti in Venezuela, che sono di lunga data. Per quanto riguarda Pechino, la questione è duplice: da un lato non vorrebbero vedere gli Stati Uniti rovesciare il regime di Maduro; dall’altro lato se gli Stati Uniti dovessero contribuire al rovesciamento del regime, i cinesi lo considererebbero una sorta di vittoria propagandistica, perché sarebbe in linea con la narrativa che stanno cercando di diffondere sul neoimperialismo americano. Questa non può dunque essere un’equazione politica facile per il presidente Trump, per quanto ci sia antipatia per il regime di Maduro per tutta una serie di ragioni, poiché ci saranno sicuramente alcuni membri del Partito Repubblicano, sia di destra che di centro, che temono la creazione di una sorta di guerra perpetua, o almeno di un intervento perpetuo nei Paesi vicini agli Stati Uniti.
Quindi l’opzione militare non è così scontata?
Direi che il verdetto su un eventuale intervento degli Stati Uniti in Venezuela sia ancora in sospeso. La situazione è molto poco chiara. Non è un progetto semplice, ovviamente. Sapete, anche se gli Stati Uniti potessero, in termini puramente militari, raggiungere obiettivi chiave, la questione di come evolverebbe il Venezuela, di come influenzerebbe la già difficile situazione dei rifugiati in tutta la regione, la sicurezza e il futuro politico del Venezuela, tutte queste cose sarebbero, in un certo senso, in gioco, e gli Stati Uniti si troverebbero nella posizione di dover gestire tutto questo. E non so se Washington sia pronta a farsene carico.
Pensa che questi nuovi dossier segnalino un passaggio di fase nella politica estera?
In un certo senso sì, e in un certo senso no. Penso che le radici di alcuni di queste dossier risalgano all’ultima campagna presidenziale. Prendiamo come esempio il Venezuela. Uno dei motivi per cui questo ha una risonanza particolare è che riguarda questioni che sono in parte internazionali e in parte interne: la migrazione, il controllo delle frontiere, la criminalità, queste cose erano in cima all’agenda della campagna elettorale. E in un certo senso, queste sono questioni di politica interna perseguite con altri mezzi. L’interesse per il Venezuela è fortemente legato a questioni di criminalità, frontiere, migrazione, stabilità nell’emisfero etc. Sono questioni che l’amministrazione ha segnalato, credo, molto presto, e che probabilmente saranno centrali nella strategia di sicurezza nazionale quando verrà effettivamente pubblicata. Ebbene, il tipo di questioni che l’amministrazione intende affrontare nei Caraibi e con il Venezuela toccano direttamente tali problematiche: traffico di droga, bande criminali, criminalità urbana, tutte cose che molti americani associano alle sfide provenienti dai confini meridionali.
















