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Innovazione come fattore abilitante, non come dipendenza economica. L’opinione di Monti

Il nostro obiettivo, come sistema sociale, non può limitarsi a trovare condizioni che possano in qualche modo arginare condizioni di criticità. Dobbiamo piuttosto anticipare le potenziali innovazioni, per fare in modo che queste possano essere utili per il nostro Paese. in questo, la cultura, l’arte, la storia, i musei, la lettura, la scienza, e tutto ciò che di meraviglioso ha creato l’essere umano sinora, giocano un ruolo essenziale, dice Monti

Tra i premi Nobel assegnati quest’anno, quello dell’economia ha voluto premiare un corpus di studi che analizza il fattore innovazione come modello di sviluppo per la nostra società.

Senza entrare nei dettagli tecnici, la narrazione sul ruolo dell’innovazione che si è sempre più affermata negli ultimi anni è molto semplice: per secoli, il genere umano ha vissuto un equilibrio economico-territoriale-demografico piuttosto stabile.

Tale narrazione si è diffusa al punto da rendere abbastanza diffuso il termine di “economia Malthusiana”, e vale a dire un sistema economico in cui si verificava ciclicamente un incremento e un decremento della ricchezza derivante dal rapporto tra la produzione, tipicamente quella alimentare, e il numero di persone.

Detto più chiaramente, nelle cosiddette economie malthusiane, si parte da una condizione di sussistenza (rapporto cibo per persone adeguato), che porta ad una maggiore natalità.

Tale maggiore natalità comporta una riduzione delle risorse pro-capite disponibili, con l’incremento della povertà, e un processo riadattamento verso la condizione di equilibrio.

In questa condizione, che per molti studiosi ha caratterizzato gran parte della storia dell’uomo, gli unici modi per regolare l’equilibrio era aumentare la produzione agricola (che in assenza di innovazione si traduce in nuovi territori da destinare a tale tipologia di utilizzo), o ridurre la popolazione (guerre ed epidemie).

Ad aver interrotto questa “trappola” (termine che sovente viene utilizzato in questo contesto), è stata per la prima volta nella storia la rivoluzione industriale.

Da allora, la specie umana ha conosciuto un’estensione senza precedenti.

Le stime indicano che, alla vigilia della rivoluzione industriale, gli esseri umani presenti sul pianeta erano circa 800 milioni. Oggi, siamo all’incirca più di 8 miliardi.

Un incremento che, senza innovazione, sarebbe molto probabilmente impossibile.

È in questa chiave di lettura che vanno tuttavia interpretate le notizie (che saranno sempre più frequenti) di robot che sostituiscono gli esseri umani nella realizzazione di specifiche attività.

L’ultima, in questo senso, è quella di Amazon, che pur smentendo le voci circolate in merito ad una drastica riduzione delle assunzioni, è tuttavia chiara nell’identificare nell’implementazione di strumenti di “intelligenza artificiale fisica” una leva complementare alle assunzioni umane.

Questo tipo di notizie, chiaramente, porta a due riflessioni principali: la prima, che coinvolge più prettamente quelle reazioni “di pancia”, e che guarda alla possibile perdita di occupazione e che spesso viene esasperata.

L’altra, decisamente meno contingente, e che invece troppo spesso viene posta in secondo piano, guarda con più estensione al sistema globale internazionale, e ai rapporti di equilibrio che sarà necessario sviluppare tra andamento demografico e innovazione.

Atteso che, come abbiamo avuto modo di apprendere dalle precedenti grandi trasformazioni, l’affermazione di una nuova tecnologia abilitante porta ad un tendenziale riadattamento nel medio periodo, è tuttavia necessario interrogarsi su quale tasso di innovazione sia realmente necessario per garantire un livello di sopravvivenza congruo all’interno di una data popolazione, e quali siano gli strumenti che gli attori economici, pubblici e privati, possono utilizzare per garantire che un determinato territorio prosperi e garantisca condizioni di vita dignitose ai propri abitanti.

In Italia, ad esempio, l’8,4% delle famiglie vive oggi in condizioni di povertà assoluta. L’età media aumenta, il tasso di dipendenza dagli anziani diviene sempre più elevato. Alcune di tali condizioni sono in qualche modo strutturali, mentre altre, come la sempre minore natalità, dipendono anche da condizioni socio-economiche e culturali.

Sinora, trasformazione dopo trasformazione, il nostro Paese ha cercato sostanzialmente di adeguarsi alle evoluzioni che avvenivano nel contesto di riferimento.

Si tratta di un approccio che riflette una condizione culturale del tutto inadeguata alle condizioni di scenario.

È questa la trasformazione culturale che è più urgente attivare: il nostro obiettivo, come sistema sociale, non può limitarsi a trovare condizioni che possano in qualche modo arginare condizioni di criticità.

Dobbiamo piuttosto anticipare le potenziali innovazioni, per fare in modo che queste possano essere utili per il nostro Paese.

Questo non significa cercare di governare processi che per dimensione sono ben più ampi di quanto il nostro Paese possa realmente fare: si tratta di comprendere in che modo, i processi in corso, possano generare cambiamenti, e sviluppare, prima che tali cambiamenti si avverino, una linea di intervento concreta, coerente, e di lungo periodo.

Se non abbiamo la capacità di essere i primi tra le più emergenti innovazioni, dobbiamo allora capire come diventare i primi nella trasformazione di tali innovazioni in opportunità. Recuperando quella consapevolezza che questo trend crescente globale di innovazioni e di popolazione, non sono affatto degli assiomi, ma una circostanza specifica nella storia della specie.

E in questo, la cultura, l’arte, la storia, i musei, la lettura, la scienza, e tutto ciò che di meraviglioso ha creato l’essere umano sinora, giocano un ruolo essenziale.


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