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La riforma della giustizia supera la Repubblica dei pm-ayatollah. Il commento di Cazzola

Come gli ayatollah le procure si sentono custodi di un’etica pubblica che viene prima e va oltre le fattispecie di reato e che va difesa e imposta tramite l’applicazione del diritto penale. La separazione delle carriere è un passaggio obbligato, non solo per i suoi effetti sul processo, ma soprattutto perché la politica deve affrontare e vincere uno scontro di potere se vuole recuperare il ruolo che gli è stato sottratto. Il commento di Giuliano Cazzola

La riforma costituzionale della giustizia con inclusa la separazione delle carriere tra magistratura giudicante e requirente è legge dello Stato.

Si attende il “giudizio di Dio’’ del referendum confermativo dove non è previsto il requisito del quorum per la sua validità.

Come durante tutto l’iter legislativo, il referendum non si limiterà ad un duro scontro tra le forze politiche, ad una discesa direttamente in campo della magistratura associata, ma vedrà lo scontro tra due Italie e – sotto questo aspetto – somiglierà ad una consultazione di natura istituzionale, alla stregua di quella del 2 giugno 1946, quando gli italiani furono chiamati a scegliere tra la Monarchia e la Repubblica.

Come scrisse Piero Calamandrei un nuovo assetto istituzionale nasce sempre dalla rottura con quello precedente: lo Statuto Albertino nei confronti dell’assolutismo, un secolo dopo la Carta costituzionale nei confronti del fascismo.

La Seconda Repubblica è figlia della “trahison des clercs’’ di Tangentopoli. Questa volta, quindi, l’elettorato sarà chiamato a scegliere tra il ripristino dello Stato di diritto o la Repubblica delle Procure, una sorta di ordinamento teocratico dove al posto degli ayatollah vi sono le magistrature requirenti, le quali, ormai, – sono parole di Sabino Cassese “sono divenute oggi il quarto potere dello Stato’’, nei fatti sovraordinato agli altri in quanto depositarie della libertà e dell’onorabilità delle persone, senza dover rispondere a nessuno degli eventuali arbitri.

E come gli ayatollah le procure si sentono custodi di un’etica pubblica che viene prima e va oltre le fattispecie di reato e che va difesa e imposta tramite l’applicazione del diritto penale. La domanda è: basterà la separazione delle carriere a riportare l’esercizio dell’azione penale su binari corretti?

È sicuramente un passaggio obbligato, non solo per i suoi effetti sul processo, ma soprattutto perché la politica deve affrontare e vincere uno scontro di potere se vuole recuperare il ruolo che gli è stato sottratto.

E la riforma Nordio può essere un campo di battaglia come un altro. Ma è inutile farsi illusioni: non basteranno le misure contemplate per avere ragione di uno sviamento di poteri che prefigura a volta suggestioni golpiste.

Per onestà bisogna riconoscere che nei casi più gravi la magistratura giudicante è stata in grado di chiudere con assoluzioni a formula piena vicende giudiziarie molto discutibili.

Nel frattempo, però, il kombinat mediatico giudiziario aveva già prodotto i suoi effetti devastanti sulla vita professionale e famigliare di quanti anni dopo hanno visto riconoscere la loro estraneità ai fatti contestati.

Ma ci sono parecchi casi nei quali è lecito chiedersi come le procure abbiano potuto iniziare una indagine e avviare dei procedimenti penali che poi si sono conclusi con un nulla di fatto. Prendiamo la più inquietante di queste indagini: la c.d. trattativa tra lo Stato e la mafia, un tormentone durato molti anni, corredato da un protagonismo mediatico dei magistrati protagonisti e dai loro corifei, quelli che Leonardo Sciascia definiva i “professionisti dell’antimafia’’: una inchiesta all’insegna del teorema dello Stato colluso con le organizzazioni criminali.

Quell’indagine e i processi che ne sono seguiti hanno coinvolto i vertici dello Stato e dei servizi.

È lecito impostare vertenze temerarie che gettano un’ombra di sospetto (che si erge a certezza mediante l’apporto dei media e degli intellettuali al servizio delle procure) basate su prove inesistenti? Ovviamente non si tratta di violare l’indipendenza della magistratura inquirente, ma che dire se alla fine sono i giudici terzi attraverso gradi del giudizio a sconfessare gli argomenti delle procure? Le critiche più dure alle procure sono arrivate dalla magistratura giudicante che ne ha strapazzato l’operato nelle sentenze nei casi più importanti.

Lo stesso discorso vale per un altro caso clamoroso che ha coinvolto la più importante azienda italiana: il processo Eni-Nigeria per il reato di corruzione internazionale.

È stata la magistratura giudicante a smontare l’impianto accusatorio e a rilevare che i pm – che erano tenuti ad esercitare una funzione giurisdizionale anche a favore degli imputati – avevano persino nascosto delle prove a loro favore e ad evitare un danno alla struttura produttiva del Paese; un’operazione che invece è riuscita nella vicenda ex Ilva che ha privato il Paese della più grande acciaieria europea che forniva il suo prodotto all’industria italiana.

Anche le ultime performance della procura per eccellenza, quella di Milano hanno rasentato l’assurdo, nel senso che sono state criminalizzate iniziative di pertinenza della politica, fino al punto di chiamare la politica stessa sul banco degli imputati.

Si è verificato nella vicenda di Milano quella deviazione di poteri e funzioni denunciata a suo tempo da Filippo Sgubbi nel saggio: Il diritto penale totale. Punire senza legge, senza verità, senza colpa. Venti tesi edito da Il Mulino.”Il sequestro di aree, di immobili, di un’azienda o di un suo ramo, il sequestro di un impianto industriale e simili incide direttamente sui diritti dei terzi. Con tali provvedimenti cautelari reali – proseguiva Sgubbi – la magistratura entra con frequenza nel merito delle scelte e delle attività imprenditoriali, censurandone la correttezza sulla base di parametri ampiamente discrezionali della pubblica amministrazione e talvolta del tutto arbitrari’’.

Sono state formulate gravi accuse nei confronti di stimati professionisti e si mise in discussione il futuro di una grande città europea.

Chi porrà rimedio al blocco urbanistico di Milano, dopo che l’indagine è naufragata al tribunale del riesame? In questi casi e in altri (si pensi allo sputtanamento internazionale della vicenda di Mafia Capitale) vi sono responsabilità delle procure che manifestano una precisa volontà di esondare dai poteri loro conferiti dalla legge per conseguire risultati estranei all’esigenza di ‘’fare giustizia’’, ma mirati ad un obiettivo politico.

Per sradicare queste distorsioni la separazione delle carriere è un primo passo, giustificato sul piano tecnico/giuridico perché coerente con il rito accusatorio del processo.

Ma deve essere l’ordinamento stesso a fare pulizia al proprio interno, perseguendo sul versante disciplinare, grazie all’Alta Corte disciplinare, quei pm che vengono colti con le mani nel sacco di una palese insussistenza di elementi probatori nei procedimenti avviati.

Quanto ai due CSM, la norma è stabilita anche a garanzia della magistratura giudicante. I magistrati requirenti, attualmente, vantano una sostanziale egemonia nella ANM e nel CSM, per cui decidono anche delle carriere dei giudici.

In proposito è il caso di segnalare una recente esternazione del pregiudicato (giudizio tecnico) Piercamillo Davigo (quello che andava in tv ad affermare che “L’imputato che viene assolto è uno che l’ha fatta franca’’).

Davigo ha raccontato con un candore impressionante come può un pm condizionare un giudice, anche nel caso della separazione delle carriere: “Oggi il PM è collega del Giudice. Se li separano non è più collega del giudice. Ma sarà sempre collega degli altri pubblici ministeri: e qui sono dolori. Quando un magistrato è imputato o persona offesa, il processo si sposta in un altro distretto, stabilito dalla legge”.

Ma il PM che non è più collega è collega di quello che sta nell’altro distretto, e alla terza assoluzione secondo lui ingiustificata che porterà a casa chiamerà il suo collega dell’altro distretto e gli dirà: “Ma senti un po’, ma vogliamo vedere se questo giudice è solo cretino, visto che mi assolve tutti gli imputati, o è anche ladro? Diamo un’occhiata ai suoi conti correnti. Ci sono stato 42 anni in magistratura, se fai un accertamento patrimoniale su un giudice quello si terrorizza, muore di spavento il più delle volte’’.

Comprendiamo benissimo che nella parabola di Davigo vi sono delle forzature, ma i segnali sono inquietanti e i messaggi chiari: se il giudice assolve o è un cretino o un corrotto; al pm non interessa sapere che il suo accusato sia innocente, perché l’assoluzione per lui sarà sempre ingiustificata.

E comunque se i giudici temono l’accertamento patrimoniale si vede che hanno qualche cosa da nascondere.

Il referendum non sarà una battaglia facile per i sostenitori della riforma Nordio. L’opinione pubblica è stata bombardata per trent’anni di una narrazione giustizialista che ha visto nel diritto penale il modo per risolvere i problemi, fino a rendere penetrabili i confini tra la legge e un’etica d’accatto.

Si staglia – sostiene ancora Sgubbi – nel contesto di una giustizia penale sempre più avulsa dalle sue finalità, la fattispecie della responsabilità penale senza colpa (dal binomio innocente/colpevole si passa al binomio puro/impuro).

In sostanza, il reato è diventato una colpa per talune categorie sociali: non nel senso tradizionale di uno specifico fatto – sostiene Sgubbi – commesso da una persona e connotato da colpevolezza, bensì come un male insito nell’uomo e nel suo ruolo nella società.

La giustizia penale deviata ha assunto in sé l’invidia sociale, il populismo, la caccia alla Casta, ha fatto piangere anche i ricchi e i potenti. Queste male piante no si estirperanno facilmente, perché le procure hanno dato al popolo quelle “feste, farina e forca’’ che desiderava come azione riparatrice di tutte le ingiustizie.


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