Mentre a Taipei si progetta il “T-Dome” ispirato all’Iron Dome israeliano, a Bandar Abbas si accumulano i precursori chimici dei missili iraniani. Due visioni opposte della sicurezza: una basata sulla difesa preventiva e sulla deterrenza democratica, l’altra sulla proiezione autoritaria e la negazione della trasparenza internazionale
Israele e Taiwan condividono una condizione di vulnerabilità strutturale: democrazie tecnologicamente avanzate, circondate da regimi autoritari ostili, che fanno della deterrenza e della resilienza la base stessa della loro sopravvivenza politica. Da questa consapevolezza nasce la convergenza strategica che il presidente taiwanese Lai Ching-te ha reso esplicita nel corso di un incontro con una delegazione dell’American Israel Public Affairs Committee (Aipac), il 27 ottobre.
Lai ha descritto Israele come un modello per Taipei, sottolineando che “il popolo di Taiwan guarda spesso all’esempio del popolo ebraico quando affronta sfide alla propria posizione internazionale e minacce alla sovranità da parte della Cina”. Pur in assenza di relazioni diplomatiche formali, i rapporti tra Israele e Taiwan sono solidi. Il Taipei Economic and Cultural Office a Tel Aviv funge da missione diplomatica de facto, mentre l’Ufficio Economico e Culturale Israeliano a Taipei ospita un rappresentante permanente. Dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023, Taipei è stata tra i primi governi asiatici a condannare “gli attacchi indiscriminati contro civili israeliani” e a dichiarare “solidarietà con Israele”.
Il richiamo di Lai al modello israeliano è parte di una più ampia strategia di rafforzamento difensivo. Il 10 ottobre, il presidente ha annunciato lo sviluppo del sistema “T-Dome”, un progetto di difesa aerea ispirato all’Iron Dome israeliano e al futuro sistema americano “Golden Dome” promosso dal presidente statunitense, Donald Trump. L’obiettivo, ha spiegato Lai, è costruire “una rete di sicurezza per proteggere la vita e la proprietà dei cittadini, con una difesa multilivello, alta capacità di rilevamento e intercettazione efficace”.
Taipei considera la cooperazione trilaterale con Stati Uniti e Israele una possibile leva per la stabilità regionale. L’esperienza israeliana nella gestione di conflitti asimmetrici e nella costruzione di una riserva militare efficiente rappresenta, per Taiwan, un modello adattabile alle proprie condizioni. Tuttavia, l’isola deve confrontarsi con un avversario – la Cina – di scala e capacità incomparabilmente superiori, che rendono necessaria un’integrazione più complessa di sistemi di difesa aerea e missilistica. Da questa prospettiva emerge anche un elemento culturale: la percezione di una comunanza di destino tra due democrazie che fondano la propria sicurezza sull’alleanza con gli Stati Uniti e su una costante innovazione tecnologica. Israele e Taiwan, entrambe fortemente dipendenti dalla capacità di reagire con rapidità a scenari in evoluzione, rappresentano per Washington nodi centrali di un sistema di alleanze costruito per contrastare l’espansione autoritaria di Cina, Russia, Iran e Corea del Nord.
In questo contesto, la riflessione di Bradley Bowman, direttore del Center of Military and Political Power della Foundation for Defense of Democracies (Fdd), sintetizza l’essenza della sfida: “Americani e nostri partner in Taiwan e altrove possono trarre enormi benefici dalla competenza tecnologica di Israele, dalla sua cultura di preparazione militare, dal senso d’urgenza e dalle lezioni apprese sulla natura mutevole della guerra”. Per Bowman, basandosi su meccanismi esistenti come il gruppo di lavoro U.S.-Israel Operations-Technology, Washington dovrebbe assicurare che strumenti formali vengano istituiti e resi responsabili dei risultati, concentrandosi sulla condivisione rapida ed efficace di tecnologie, know-how e capacità militari tra i servizi statunitensi e la rete di alleati e partner. “Abbiamo molto da imparare da Israele e dall’Ucraina, e possiamo dissuadere l’aggressione e salvare vite se rendiamo questa collaborazione sistematica, non episodica”. Chiosa polemica: “Cina, Russia, Iran e Corea del Nord, i membri dell‘Asse degli aggressori. comprendono il valore dei partner. E noi?”.
La nuova fase delle relazioni tra Israele e Taiwan non è dunque una semplice affinità politica o morale, ma la costruzione di un linguaggio comune, anche operativo, tra democrazie che devono difendersi in un contesto di pressione permanente. Il parallelo si estende oltre il piano delle democrazie assediate. Mentre Israele e Taiwan rafforzano la propria cooperazione tecnologica e difensiva sotto la spinta americana, sull’altro fronte prende forma un asse di natura opposta, fondato sulla convergenza tra regimi autoritari: Iran, Cina, Russia e Corea del Nord.
Nei giorni scorsi, fonti di intelligence europee citate dalla CNN hanno segnalato un incremento nelle spedizioni dalla Cina verso l’Iran di sodio perclorato, un composto chimico fondamentale per la produzione di propellenti solidi destinati ai missili balistici. Dieci–dodici carichi, per un totale di circa 2.000 tonnellate, sarebbero giunti a destinazione a partire dal 29 settembre. Il dato, apparentemente tecnico, è politicamente rilevante: il sodio perclorato non è esplicitamente incluso tra le sostanze vietate dal regime sanzionatorio riattivato dal “snapback” dell’Onu promosso da Francia, Germania e Regno Unito, e può dunque transitare in una zona grigia normativa che Pechino può invocare per giustificare le proprie forniture.
Da questo composto si ottiene però il perclorato di ammonio, principale ossidante nei motori a combustibile solido dei missili di medio raggio — materiale invece proibito. L’obiettivo iraniano potrebbe essere ricostituire e ampliare il proprio arsenale dopo la “Guerra dei dodici giorni” con Israele di giugno, che aveva esaurito parte significativa delle scorte missilistiche e colpito duramente la catena di comando. Pechino nega ogni coinvolgimento statale diretto, ma la tempistica e la quantità delle spedizioni suggeriscono un sostegno materiale crescente, coerente con l’approfondimento dei legami economici e militari tra i due Paesi.
In un contesto di sanzioni rinnovate e pressioni internazionali, l’Iran ha respinto le richieste statunitensi di limitare la gittata dei propri missili, definendole “inaccettabili” perché lesive della difesa nazionale. Nel frattempo, il regime di Teheran compensa il rischio di isolamento incrementando gli sconti sul greggio destinato ai clienti asiatici: secondo Reuters, il prezzo del suo light crude sarebbe stato abbassato di 8 dollari al barile, il livello più basso dell’ultimo anno. Per Gregory Brew, analista dell’Eurasia Group, “non c’è nulla di sorprendente nel fatto che Teheran voglia ricostituire il proprio arsenale missilistico, e che Pechino la assista in questo processo”. La vera incognita, osserva, è se il tentativo iraniano di riarmarsi spingerà Israele a reagire militarmente. “Il test sarà capire se Israele può convivere con un Iran che si riarma, pur senza rilanciare il programma nucleare, o se riterrà necessario intervenire ancora”.
Dalla prospettiva israeliana, il rischio è duplice: l’Iran che rinasce come potenza missilistica e la Cina che diventa il suo fornitore strategico di tecnologie dual use. Michael Horowitz, analista con base in Israele tra i migliori osservatori delle dinamiche legate al mercato degli armamenti in Medio Oriente, ritiene che le spedizioni di sodio perclorato rappresentino “solo una piccola parte” del supporto cinese a Teheran, “probabilmente la punta dell’iceberg”. Le conseguenze di questo doppio asse — Israele–Taiwan da un lato, Iran–Cina dall’altro — delineano un equilibrio globale sempre più polarizzato, dove le catene tecnologiche e industriali assumono un ruolo di potere tanto determinante quanto le alleanze militari.
Nella logica di questo confronto, l’Indo Pacifico e il Medio Oriente si fondono in un’unica scacchiera strategica. Taiwan e Israele incarnano l’idea di resilienza delle democrazie sotto minaccia; Iran e Cina quella di un revisionismo sistemico, fondato sulla capacità di aggirare regole e sanzioni per consolidare la propria influenza. La sfida, ormai, non è solo militare o tecnologica — è una battaglia per il controllo dei modelli di sopravvivenza.
















