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Tregua o tragica stabilità? Dentice racconta Gaza 25 mesi dopo

Sin dalle prime ore del 7 ottobre 2023, Giuseppe Dentice, analista dell’Osservatorio sul Mediterraneo (Osmed) dell’Istituto di Studi Politici S. Pio V, commenta con Formiche.net l’evoluzione della guerra a Gaza e del conflitto regionale collegato. Venticinque mesi dopo, la sua diagnosi rimane cupa: una tregua fragile, sospesa in quella che definisce “una tragica stabilità”

“Sembra un ossimoro — spiega Giuseppe Dentice, esperto di Medio Oriente e Nord Africa — ma la situazione rimane sempre grave e appesa a un filo che può spezzarsi da un momento all’altro, a causa delle violazioni reciproche e della volontà delle ali più radicali, da entrambe le parti, di minare qualsiasi tentativo di compromesso”.

Il nuovo contesto: tra tunnel, amnistie e piani internazionali

Nelle ultime settimane la crisi si è concentrata sulla città di Rafah, dove decine di militanti di Hamas sarebbero rimasti intrappolati nei tunnel al di là della linea di separazione con Israele. Gli Stati Uniti hanno proposto di usare questa vicenda come banco di prova per il disarmo pacifico di Hamas: i miliziani consegnerebbero le armi a una terza parte — Egitto, Qatar o Turchia — in cambio dell’amnistia e del trasferimento nelle aree sotto controllo palestinese. Israele, però, resta scettico e la parte più estremiste della coalizione che dà ossigeno politico al premier Benjamin Netanyahu rifiuta qualsiasi ipotesi di perdono. Sullo sfondo, Washington lavora a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per creare una forza internazionale di stabilizzazione (ISF) con mandato biennale, che garantisca la sicurezza nella Striscia durante la transizione verso un ritorno graduale dell’Autorità Palestinese. Intanto, Hezbollah ha respinto le pressioni statunitensi ed egiziane per aprire un negoziato diretto con Israele, mantenendo alta la tensione sul fronte libanese – dove Israele ha colpito postazioni del gruppo terroristico anche nelle scorse ore.

Una guerra che diventa politica interna

Le complessità sono molteplici. Secondo Dentice, tanto Israele quanto Hamas stanno utilizzando la guerra — o la sua sospensione — per consolidare posizioni di potere. “Sul fronte israeliano – osserva – Netanyahu cerca di prosciugare i serbatoi di voti dell’estrema destra, ponendo l’attenzione su di sé. La campagna elettorale per il 2026 è già iniziata, e il primo ministro sfrutta la guerra a Gaza e la possibile riapertura del fronte nord con il Libano anche in chiave elettorale”.

Sul fronte opposto, anche Hamas è lacerata da divisioni interne. “Il bureau politico dell’organizzazione cerca di salvaguardare se stesso dalle accuse dell’ala militare, che non ha mai digerito la tregua”, spiega Dentice. “Ma allo stesso tempo Hamas sfrutta ogni spiraglio per rafforzare la propria posizione nel sistema palestinese, indebolendo Fatah e l’Autorità Nazionale Palestinese.”

Fatah in transizione, Hamas in vantaggio

La leadership palestinese è infatti in piena transizione. “Con la nomina di Hussein al-Sheikh a successore ad interim di Abu Mazen, si è cercato di placare le fronde interne”, spiega l’analista, “ma il risultato è stato quello di alimentare ulteriormente la delegittimazione di Fatah e di favorire Hamas, che oggi resta l’unico attore realmente capace di condizionare la politica palestinese”. In questo gioco di lotte di potere interno c’è poi la crisi umanitaria a Gaza e tutto quello che ne consegue anche in termini proprio di gestione della stessa crisi, non solo come pressione sulle persone.

In questo quadro, la cosiddetta “fase 2” della crisi — la stabilizzazione della Striscia e la ricostruzione — resta un miraggio? “Siamo lontani da qualsiasi attuazione reale. Anche qualora venissero rilasciate le ultime salme degli ostaggi israeliani, restano irrisolti i nodi del monopolio della violenza e della gestione del territorio”.

Una forza internazionale impossibile senza Hamas

Il principale ostacolo rimane la questione del potere sul terreno. “Qualsiasi transizione non può essere garantita senza Hamas”, evidenzia pragmaticamente Dentice. “È l’unica forza che detiene il controllo effettivo del territorio e delle armi, e che può neutralizzare le altre milizie. Pensare di escluderla significherebbe creare un vuoto che nessuno potrebbe colmare.”

Ma, anche ammesso un coinvolgimento minimo di Hamas (cosa che Israele difficile può accettare formalmente), chi dovrebbe assumersi la responsabilità della sicurezza e della ricostruzione? “Gli Stati Uniti e gli europei si tengono alla larga; i Paesi arabi non vogliono esporsi, se non Egitto e Giordania, che per motivi propri intendono mantenere un ruolo ma non farsi carico dell’intera gestione”, spiega Dentice. “Altri attori come Turchia, Indonesia e Pakistan mostrano interesse, ma ognuno per ragioni diverse”.

Proprio la Turchia rappresenta, secondo Dentice, la variabile più controversa. “È l’attore più temuto da molti Paesi arabi. Ankara è uscita rafforzata da gli accordi di Sharm el-Sheikh, ma la sua presenza a Gaza irriterebbe tanto l’Egitto quanto Israele, che la percepiscono come un fattore di accerchiamento, soprattutto in combinazione con il fronte siriano”.

Un equilibrio instabile

La guerra a Gaza continua così a tenere sospesi anche altri dossier regionali. “Senza Gaza, paradossalmente, molti fronti torneranno ad accendersi”, avverte Dentice. “Dal Libano alla Siria, fino all’Iran, che resta sullo sfondo ma con un peso decisivo nelle dinamiche regionali”.

Il risultato è un Medio Oriente “estremamente volubile, che si regge a doppio filo con quanto accade a Gaza”. “Non siamo davanti a una vera de-escalation — conclude Dentice — ma a una moderata stabilità. Gli echi della guerra e le minacce che si muovono nel sottobosco politico e securitario sono tali da far temere scenari peggiori. La situazione resta estremamente delicata e preoccupante”.


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