Si è concluso l’iter di approvazione della normativa europea sulle materie prime critiche, essenziali per la transizione energetica e digitale. Con il via libera del Consiglio, ora si passa alla fase attuativa da parte degli Stati membri. Ecco quali sono i punti più cruciali e problematici
Nella giornata di lunedì il Consiglio europeo ha adottato il Regolamento che istituisce un quadro per definire la strategia dell’Unione Europea per l’approvvigionamento sicuro e sostenibile di materie prime critiche. Dopo il necessario passaggio all’Europarlamento lo scorso dicembre, l’organismo che riunisce i capi di Stato e di governo dell’Ue ha dato il suo benestare. Il Regolamento, dunque, sarà pubblicato nella Gazzetta ufficiale dell’Ue ed entrerà in vigore nelle prossime settimane.
“Con la legge sulle materie prime critiche vogliamo trasformare la debolezza delle nostre dipendenze in autonomia strategica e un’opportunità per la nostra economia. Questo atto legislativo darà impulso al nostro settore minerario, migliorerà le nostre capacità di riciclaggio e lavorazione, creerà posti di lavoro locali di buona qualità e garantirà che il nostro settore sia attivo e pronto per le transizioni digitale e verde”, ha affermato Jo Brouns, ministro fiammingo dell’Economia, dell’Innovazione, del Lavoro, dell’Economia Sociale e dell’Agricoltura.
L’European Critical Raw Materials Act, che era stato proposto dalla Commissione europea nel marzo del 2023, ha seguito un iter approvativo piuttosto spedito, considerando la natura strategica della misura e le evidenti vulnerabilità che l’Ue sconta dal punto di vista delle forniture di materiali. Infatti, come è emerso dall’ultima analisi della Commissione, in collaborazione con il Joint Research Centre, è stato individuato un elenco di materie prime critiche e strategiche che comprende complessivamente 33 elementi, mentre sono 17 quelle considerate anche strategiche non solo per la transizione verde, ma anche per i settori della difesa e dello spazio (la prima che, in seguito all’escalation in Ucraina e ai venti di guerra che soffiano sul continente, torna ad essere centrale nell’ottica di una corsa agli armamenti).
L’Eu Crms Act ha stabilito, inoltre, alcuni parametri di riferimento da raggiungere, auspicabilmente entro la fine del decennio, per le capacità nazionali lungo la catena del valore delle materie prime incluse nella doppia lista: il 10% del fabbisogno annuale dell’Ue da estrazione continentale, 40% per la raffinazione e il 15% da recupero e riciclo. Inoltre, non più del 65% del fabbisogno annuo dell’Ue di ciascuna materia prima strategica in ogni fase di lavorazione dovrebbe provenire da un singolo Paese terzo. È il caso, eclatante, del litio da cui il blocco europeo dipende per oltre il 75% dal Cile (su cui sono forti gli interessi dei gruppi industriali cinesi, come anche in Argentina), o delle terre rare con una dipendenza ancor più pronunciata (circa il 98% dalla Cina, seppur questo dato non sia significativo dal momento che gran parte delle importazioni europee sono relative a materiali di scarso valore e non impiegati nella fabbricazione di magneti permanenti, essenziali per motori elettrici e turbine eoliche, su cui invece sono le industrie cinesi a dominarne la produzione).
Ma andiamo con ordine. Sul lato dell’estrazione domestica, ciascuno Stato Membro dovrà, entro un anno dal passaggio del Regolamento, presentare un programma nazionale di prospezione delle materie prime critiche sul proprio suolo nazionale, tramite la rielaborazione di dati esistenti (in Italia siamo alle fasi conclusive di questo passaggio, con la prossima presentazione del Piano Minerario Nazionale) e l’aspetto più operativo che riguarda mappatura e campagne di esplorazione geofisiche e geochimiche che, naturalmente, saranno svolte con fondi dedicati. Qualora vi fossero giacimenti di rilevanza strategica e di interesse comune, il Regolamento ha previsto di alleggerire l’iter burocratico, fissando le scadenze per la valutazione dei progetti all’interno dell’Ue entro un iter autorizzativo di 27 mesi. L’Ue non dispone di particolari riserve: conta per poco più del 5% di quelle di litio sul totale globale, mentre più consistenti sono quelle di nichel, cobalto, grafite nei Paesi Scandinavi. Proprio di recente la Commissaria Ursula von der Leyen ha fatto visita a Nuuk, in Groenlandia, con cui l’esecutivo Ue ha in programma investimenti per circa 22,5 milioni di euro in energia e materie prime critiche. Tra i progetti più promettenti, quello di Kiruna operato dalla svedese LKAB per le terre rare e i progetti di estrazione di litio da fonti geotermiche in Germania e quelle in fase di esplorazione in Italia. L’eurodeputata tedesca Henrike Hahn, dei Verdi e co-leader del dossier legislativo al Parlamento europeo, ha dichiarato che il Crma fornirà materiali “urgentemente necessari all’industria e alle piccole e medie imprese” che producono “beni cruciali” come turbine eoliche, pannelli solari, auto elettriche e chip per computer.
Ma sono le fasi di raffinazione di metalli, in particolare quelli impiegati nella produzione di celle per batterie elettriche, a rappresentare il punto più problematico: parliamo di nichel, grafite e cobalto di cui l’Ue produce quote minoritarie sul totale globale, considerando che si tratta di attività energivore, ad alto impatto carbonico e che vedono principalmente Indonesia, Cina e Repubblica Democratica del Congo dominare lo share di mercato. Senza contare che nei due Paesi Pechino controlla buona parte delle attività di estrazione e lavorazione, avendo investito capitali e trasferito parte del proprio know-how chimico e industriale. In un position paper del novembre del 2022, in sede di formulazione del Regolamento, l’associazione dei produttori di metalli europea, Eurometaux, aveva suggerito di “imparare dalla Cina e sostenere finanziariamente le aziende europee che possiedono o sono parzialmente proprietarie di risorse globali competitive”. In generale, la Cina conta per l’85-90% della raffinazione di metalli di terre rare, del 68% di solfato di cobalto, del 65% di nichel battery grade e del 60% dei composti di litio. Anche in questo segmento, il Regolamento Ue prevede di accelerare l’iter autorizzativo per i progetti di raffinazione.
Ed è proprio nella necessità di muoversi, con pragmatismo, in questo contesto – che, si badi bene, deve tenere conto anche delle dinamiche geopolitiche in corso, considerando che Pechino ha già segnalato la volontà di utilizzare il suo dominio della supply chain come arma di ritorsione economica (si veda l’inserimento di gallio e germanio, due metalli fondamentali per la produzione di semiconduttori di potenza, in una lista di materiali strategici che richiedono licenze per l’export, insieme alla grafite) in risposta alla “guerra” sui chip in corso – che ora si dovrà valutare l’impatto concreto del Regolamento europeo, rispetto per esempio a quanto previsto dall’Inflation Reduction Act (IRA) statunitense.
Da una parte, le due misure condividono un assunto: la necessità di ridurre, dove possibile, la dipendenza da Pechino che potrebbe diventare una questione dirimente nella cooperazione economica e commerciale tra Ue e Cina. Dal punto di vista europeo, come emerge dal linguaggio e dall’enfasi dell’Crms Act, il punto che divide i due Paesi nell’approccio alle risorse è la sostenibilità (ambientale, nonché sociale) che, nell’auspicio della Commissione e dei legislatori europei, dovrebbe poter diventare un leverage per poter incentivare i grandi gruppi industriali (specialmente, l’automotive) europei a diversificare gli approvvigionamenti dai fornitori cinesi. Negli Stati Uniti, la questione è posta in termini di sicurezza economica e nazionale, dal momento che le clausole dell’IRA (in particolare, quella riferita alle Feoc – foreign entity of concern) fanno diretto riferimento alle entità cinesi.
Ad ogni modo, il ricorso ad un parziale decoupling inevitabilmente sposterà la competizione tra Ue e Cina sui mercati internazionali, e in particolare verso i Paesi ricchi di risorse come Australia, Canada, Cile e Argentina nonché i paesi africani. È qui che diventa essenziale trasformare i partenariati strategici sino ad ora siglati – fino ad ora Bruxelles ha raggiunto un’intesa con Cile, Groenlandia, Ucraina, Canada e Ruanda, mentre sono in corso colloqui con la Norvegia che è stato il primo Paese ad approvare il deep sea-bed mining – da protocolli d’intesa e dichiarazioni d’intenti a canali effettivi di collaborazione, investimenti e de-risking (nel senso più pragmatico ed efficiente del termine, ossia riducendo il costo di un capitale che rimane ancora, forse troppo, limitato per chi opera nella fasi upstream e midstream della filiera) che siano orientati all’azione e ai risultati: questo perché, oltre a professare l’enfasi sulla sostenibilità, il blocco Ue deve saper presentare un’offerta che possa soddisfare le esigenze dei grandi gruppi industriali, da Stellantis a Volkswagen, passando per Siemens Gamesa, Northvolt e tutte quelle realtà attive sulla filiera delle tecnologie green, dalle batterie (su cui è già importante la partnership con le aziende coreane) alle turbine. La sensazione è che gran parte dell’attivismo richiesto per la sicurezza delle forniture sia in mano ai privati, dal momento che le negoziazioni e i contratti a lungo termine vengono siglati – spesso in cambio di significativi investimenti o partecipazioni azionarie dirette – tra Oems (Original equipment manufacturers) e fornitori di prima classe. Tuttavia, è interessante registrare la proposta nella sua Lettera all’Europa del CEO di Renault, Luca De Meo, per “creare un’organizzazione a livello europeo preposta a garantire il fabbisogno di materie prime sensibili, negoziando direttamente con i Paesi produttori” applicandosi anche alla trasformazione delle materie prime e considerando che “entro il 2030, solo il 5% del fabbisogno proverrà da fonti europee”.
Proprio queste grandi realtà saranno chiamate, come indicato nell’Art. 23 del Regolamento, a condurre studi e valutazioni dei potenziali rischi sulle loro catene di approvvigionamento (emulando, da una prospettiva chiaramente corporate, quanto fatto dalla Commissione per il blocco economico europeo), nonché sviluppare strategie di mitigazione per far fronte a possibili interruzioni della fornitura. Il ricorso a procurement da realtà europee o da Paesi terzi con l’applicazione di “migliori standard ecologici” rimane comunque collegato alla volontà di queste industrie di accettare prezzi premium rispetto a prodotti comunque accessibili sui mercati globali da realtà che vantano una lunga esperienza e capacità industriale. Un aspetto che rischia di avere meno appeal soprattutto se consideriamo i prezzi di materie prime come litio, cobalto e nichel che hanno registrato rispettivamente un crollo del 82%, 65% e 64% rispetto ai massimi di fine 2022. Oltre agli effetti nel breve-medio periodo sulle offerte alternative sui mercati, con molti progetti minerari sospesi o in difficoltà economica. Il focus, infine, sulla circolarità (Art. 27, Cap V) sarà implementato nello specifico con i fondi post-Covid e del REPowerEU, dove spicca in particolare il regolamento sulle batterie elettriche per il recupero di materiali critici e la creazione di una filiera più integrata. Ma qui gli effetti saranno palpabili solo nel lungo periodo.
La reazione della Camera di Commercio cinese in Ue è stata piuttosto dura, con l’ammonimento a Bruxelles di non distorcere la supply chain dei materiali critici attraverso misure protezionistiche e contro il mercato. La Camera, che rappresenta oltre 1.000 aziende che operano sul nostro continente, ha enfatizzato che “la dipendenza è mutua” e che le misure proposte rischiano di aumentare i costi delle tecnologie rinnovabili. Di recente, la Commissione ha dato segnali di voler procedere con decisione verso l’impiego di tariffe commerciali nei confronti dei veicoli elettrici (EV) cinesi importanti in Europa, dal momento che vengono proposti ai consumatori a prezzi decisamente inferiori rispetto alla concorrenza (grazie soprattutto all’economia di scala e alla leadership tecnologica di Catl e Byd). Un aspetto che Bruxelles vuole sottoporre a indagine approfondita.
Come sottolineato da Eurometaux, il Regolamento “è un primo passo importante per affrontare l’incombente sfida dell’approvvigionamento di metalli in Europa”. Ma resterà essenziale garantire la fase di implementazione, andando a colmare i gap – soprattutto quelli finanziari e d’investimento – che attualmente rimangono tra le ambizioni europee (delineate dai target previsti dal Regolamento) e gli strumenti a disposizione. Sul fronte internazionale, rimarrà comunque importante il coordinamento con gli alleati, nello specifico con Stati Uniti e gli altri membri della Minerals Security Partnership, per coordinare le politiche commerciali ma soprattutto per convogliare know-how e capitali in capacità estrattiva e raffinazione in loco, se richiesta dai Paesi partner extra-Ue.