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Così cambia l’approccio di Taipei (e Washington) per proteggere Taiwan

Nel contesto di accresciute tensioni con la Cina, l’autodifesa diventa la via maestra per Taipei. Dalla strategia del porcospino all’aumento delle spese militari, il governo taiwanese si concentra sul rafforzamento delle proprie capacità per dimostrare (sia a Pechino che a Washington) di essere un attore responsabile e resiliente

Nel quadrante dell’Indo-Pacifico gli ultimi giorni hanno visto nuove tensioni acucmularsi in una situazione già tutt’altro che semplice. Secondo quanto riportato dai media cinesi la portaerei Fujian, fiore all’occhiello della People’s Liberation Army Navy, avrebbe condotto con successo nello scorso periodo ben otto test in mare, segnalando de facto una sempre maggiore prontezza del vascello all’impiego in operazioni militari vere e proprie, rafforzando la narrativa sempre più assertiva adottata da Pechino sul piano internazionale. A questo si aggiunge il verificarsi di diversi incontri ravvicinati (con undici episodi riportati in un lasso di tempo di dieci giorni) tra velivoli ad ala rotante della Pla ed aerei di una “forza nemica” non meglio specificata, incontri che la China Central Television definisce come “provocazioni”; ma anche dallo svolgimento di nuove simulazioni di operazioni di sbarco in occasione del primo anniversario dell’insediamento dell’attuale presidente taiwanese William Lai Ching-Te.

Non è certo un mistero che riprendere il controllo sull’isola antistante alle coste della Repubblica Popolare sia il grande obiettivo della leadership del Partito Comunista Cinese, a partire dal segretario Xi Jinping. E con lo scorrere del tempo, le capacità delle forze armate di Pechino di portare a compimento una simile operazione militare crescono sempre di più. Difficile presumere che Taiwan possa essere in grado di difendersi da sola. E questo lo sanno tanto a Taipei quanto a Washington e a Pechino. Non a caso nel corso degli anni, mentre la Pla potenziava trasversalmente le sue capacità militari (dall’arsenale atomico alle navi da guerra e alla fanteria regolare, fino alla “Guardia Costiera” utilizzata per portare avanti operazioni secondo le logiche definite nel lessico cinese come “Gray zone tactics”), gli Stati Uniti rafforzavano la loro postura nella regione, attraverso il ridispiegamento di unità militari, navali ed aeree, ma anche attraverso la conduzione di esercitazioni congiunte con gli alleati locali, e in particolare con quelli compresi nella cosiddetta “First Island Chain”, dalle Filippine al Giappone (all’incirca un mese fa si è svolta l’edizione 2025 dell’annuale Balikatan che vede impegnate le forze di Washington e quelle di Manila). Con l’obiettivo di essere pronti a intervenire qualora le forze armate cinesi decidessero di realizzare quello scenario che fino a dora hanno solo ricreato negli wargames degli ufficiali e nelle simulazioni sul campo.

Ma questo non vuol dire che Taiwan debba “dormire sugli allori”, anzi. Seppure sia pressoché impossibile che l’isola acquisisca una capacità militare sufficiente a respingere l’eventuale operazione di invasione anfibia portata avanti dalla Pla, essa può comunque mirare al risultato “più efficiente”, ovvero quello di infliggere il maggior numero di perdite (inteso in termini di equipaggiamento e di vite umane) alle forze di invasione cinesi, secondo le logiche della “guerra asimmetrica” che sottendono quell’oramai nota “porcupine strategy” che, almeno sul piano teorico, dovrebbe dissanguare l’esercito nemico impegnato nel tentativo di conquistare Taiwan, con l’obiettivo di prevenire che quest’ultima evenienza si realizzi.

La parola chiave che si sta facendo strada nel discorso pubblico, e non solo in quello taiwanese, è “self-defense”. Charles L.Glaser, senior fellow del Programma di studi sulla sicurezza del Mit e professore emerito di scienze politiche e affari internazionali alla George Washington University, lo scorso aprile ha pubblicato un paper sull’Washington Quarterly dove viene proposta una “Us-supported” strategia di autodifesa di Taiwan, con gli Stati Uniti che ritirerebbero l’impegno a intervenire militarmente in caso di invasione o blocco da parte della Cina, sostituendolo con una dichiarazione pubblica chiara che escluda l’uso delle forze armate per tale scopo. Tuttavia, continuerebbero a sostenere la difesa di Taiwan tramite la fornitura di armi e addestramento. Gli Stati Uniti continuerebbero anche a sollecitare Taiwan ad adottare pienamente la strategia del porcospino, sostenendo tale transizione con forniture militari e finanziamenti.

Pochi giorni fa, sulle colonne di Foreign Policy anche il vicepresidente e senior director dello Scowcroft Center for Strategy and Security dell’Atlantic Council Matthew Kroenig ha sostenuto l’importanza dell’autodifesa taiwanese e della “porcupine strategy”. Alla cui realizzazione le elites taiwanesi dovrebbero mirare con pragmatismo e senza commettere “errori” dettati da ragioni politiche, come ad esempio il voler acquisire sistemi d’arma costosi come gli F-35 al posto di spendere le risorse per acquisire sistemi missilistici anti-nave e droni, per potenziare le capacità logistiche e per addestrare i propri cittadini. “In futuro, è più probabile che gli Stati Uniti aiutino coloro che dimostrano di sapersi aiutare da soli. Anche se Taiwan dovesse trasformarsi in un ‘porcospino’, la pace e la stabilità globali dipenderanno con ogni probabilità dal continuo sostegno degli Stati Uniti all’isola. Garantire tale sostegno, e rendere così il rischio di guerra incalcolabile per la Cina, potrebbe essere la ragione più importante per cui il nuovo approccio serio di Taiwan alla difesa dovrebbe essere accolto con favore” scrive Kroenig nel suo articolo, legando (in contrasto con quanto suggerito da Glaser) il sostegno americano al perseguimento di questa strategia da parte di Taipei.

Dal canto suo, la leadership di Taiwan sembra condividere questa posizione: nelle stesse ore in cui veniva pubblicato l’editoriale di Kroenig, dall’altra parte del Pacifico il Ministro della Difesa taiwanese Wellington Koo rilasciava un’intervista al New York Times dove riconfermava il suo impegno (dimostrato dalle azioni intraprese nel corso del suo anno di mandato) a potenziare le capacità di difesa asimmetrica di Taiwan e ad aumentare le spese della Difesa, un tema su cui si era esposto lo stesso Presidente statunitense Donald Trump. “Se si riesce a far capire alla Cina che i costi potenziali (di un’invasione ndr) sarebbero estremamente, estremamente elevati, allora per essa sarà estremamente difficile prendere una decisione”, ha detto Koo, “È ciò che pensano anche gli Stati Uniti, cioè che preservare la sicurezza dell’Indo-Pacifico, in particolare la stabilità dello Stretto di Taiwan, attraverso la deterrenza per evitare la guerra, sia un interesse condiviso. Certo, l’amministrazione Trump pone l’accento su ‘America first’. Ma noi crediamo che, in materia di sicurezza, ponga anche l’accento su ‘Indo-Pacific first’”. Che quest’ultimo sia o meno un whisful thinking, solo il futuro potrà dircelo.


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