Skip to main content

Difesa saudita, tra ambizione e strategia. Il lungo cammino verso l’autonomia nell’analisi di Ardemagni

Di Eleonora Ardemagni

Un dossier Ispi analizza la trasformazione industriale della difesa in Arabia Saudita: progressi concreti ma ancora lontani dagli obiettivi di Vision 2030, tra prudenza americana e nuove aperture verso Europa e Asia. L’analisi di Eleonora Ardemagni, esperta di Yemen e monarchie del Golfo, senior associate research fellow presso l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale

I numeri dell’industria della difesa dell’Arabia Saudita sono in crescita, ma a che punto siamo davvero? E quanto pesano gli obiettivi politici nella strategia industriale del regno? Un Dossier dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) appena pubblicato, “A Strategic Business: The Politics of Saudi Arabia’s Defence Transformation”, riflette sulla trasformazione della difesa saudita, soffermandosi in particolare sui nodi politici e le opportunità geopolitiche.

Nel lungo periodo, i sauditi hanno un obiettivo: diventare capaci di difendersi da soli, contando sulle capacità industriali e umane che il regno è, e sarà, in grado di mobilitare al proprio interno. Secondo i dati della Gami (General Authority for Military Industries), nel 2024 la localizzazione della spesa militare in Arabia Saudita è arrivata al 19%: un dato in netto aumento se confrontato con il 4% del 2018, ma ancora molto lontano dall’ambizioso target del 50% fissato da Vision 2030 entro quell’anno.

La sfida rientra nella diversificazione economica “oltre il petrolio”, ma lo scopo ultimo è ancora più importante: da tempo, Riyadh deve affrontare l’arretramento strategico degli Stati Uniti in Medio Oriente, senza che vi siano sostituti all’orizzonte. La soluzione possibile è moltiplicare i fornitori esterni di sicurezza, in attesa di diventare davvero autonomi: il patto di mutua difesa che l’Arabia Saudita ha appena firmato con il Pakistan (17 settembre) testimonia come Riyadh stia tessendo una strategia di difesa multi-allineata.

Più che mai, l’attualità mediorientale è un pungolo in questa direzione. In soli tre mesi, i sauditi hanno visto l’alleato Qatar colpito prima dall’Iran (23 giugno), poi da Israele (9 settembre). Attacchi che mettono a nudo l’inefficacia della deterrenza americana nel Golfo, di cui i missili e i droni iraniani del 2019 contro gli impianti di Saudi Aramco furono il primo, tangibile avvertimento. E adesso, Doha ha ottenuto, grazie all’ordine esecutivo di Donald Trump (29 settembre), garanzie di sicurezza che generano un’asimmetria tra i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo: gli Stati Uniti considereranno infatti qualunque attacco armato al territorio, alla sovranità e alle infrastrutture critiche del Qatar “come una minaccia alla pace e alla sicurezza” di Washington. La traduzione politica è che i qatarini ricevono ora dagli americani una protezione formale maggiore dei sauditi.

Nel Dossier, la trasformazione della difesa saudita è la lente da cui guardare per comprendere le scelte geopolitiche di Riyadh. Osservando la scena attuale, emergono due dinamiche rilevanti, come scrive nella sua analisi Amal Altwaijri della società Alyamamah International for Research and Development di Riyadh, nonché ricercatrice della Rand di Washington. La prima è che i sauditi stanno facendo passi in avanti in tema di localizzazione della produzione e delle competenze, in Manutenzione, Riparazione e Revisione (Mro) e nella componentistica: in entrambi i casi, le joint ventures con gli Stati Uniti sonofondamentali.

La seconda dinamica, sottolinea Altwaijri, è che Riyadh faticaquando riesce a ricevere dagli americani (e ad aggiornare) la tecnologia necessaria a fare il salto di qualità nella difesa, dai sensori avanzati fino ai software di missione e alle misure di protezione delle comunicazioni militari. Gli Stati Uniti continuano a essere restii al trasferimento di tecnologie avanzate, perché hanno losguardo sempre rivolto alla Cina, il rivale sistemico, e al suo attivismo economico e tecnologico nel Golfo. Per i sauditi, forti dei tanti investimenti interni e internazionali in tecnologie avanzate e intelligenza artificiale, l’approccio americano comincia a essere percepito come ´un tappo` che limita le crescenti ambizioni nazionali.

Ed è qui che si aprono spazi di opportunità per i Paesi e le compagnie europee ed asiatiche, più flessibili degli americani in tema di technology transfer. Come evidenzio nella mia analisi per il Dossier, Riyadh sta guardando ai paesi membri o partner della Nato per la cooperazione in due dei segmenti della difesa a più alto tasso d’innovazione: i caccia di sesta generazione e la subacquea.

L’Arabia Saudita ha infatti espresso interesse a entrare come partner nel Gcap, il Global Combat Air Programme tra Gran Bretagna, Italia e Giappone, così come nel Kaan, il programma della Turchia per lo sviluppo di caccia di quinta generazione (cui si è già unito l’Egitto). Due progetti che Riyadh vede come complementari, non come alternativi. Nella subacquea (underwater), i sauditi hanno fin qui cooperato con compagnie francesi, come per l’acquisizione di sonar in grado di captare sottomarini in prossimità della costa e la possibile realizzazione nel regno di un centro di ricerca per la difesa subacquea.

La cooperazione è fondamentale anche per formare personale nazionale altamente specializzato, come ingegneri e tecnici: la vera sfida che segnerà la misura del successo, o del fallimento, della difesa “made in Saudi”. Il ruolo delle partnership internazionali, sottolinea nel suo articolo Albert Vidal, analista dell’International Institute for Strategic Studies (Iiiss), è in questo senso cruciale per le accademie e le università saudite, come ben dimostra il settore della cantieristica locale che prova a muovere i primi passi.

Il dato geopolitico è che Riyadh non sceglie né la Cina né la Russia, né tanto meno gli Stati Uniti,quando intende approfondire tecnologie cutting-edge per la difesa. Per l’Arabia Saudita, la priorità è dunque bilanciare diversificazione da Washington e integrazione con Washington. Ovvero rafforzare e ampliare la cooperazione con paesi membri e partner della Nato, quindi senza compromettere la partnership politico-industriale con gli Stati Uniti, ancora fondamentale. Non è forse un caso che il Giappone, partner del GCAP, sarà per la prima volta ospite nel 2026 del World Defence Show di Riyadh, la fiera dell’industria della difesa in Arabia Saudita.

In fondo, come riflette Emma Soubrier, direttrice della Prisme Initiative presso l’Università della Costa Azzurra, la localizzazione dell’industria della difesa è per Riyadh, innanzitutto, una strategia politica. Prima di essere un veicolo di reale autonomia, produrre da soli significa accumulare potere negoziale da spendere soprattutto con alleati e partner, a cominciare dagli Stati Uniti. Ma anche sul piano interno, permettendo così al governo di rimodellare le reti di redistribuzione della rendita per continuare a guidare la trasformazione, saldamente dal centro. La difesa come necessità e come strumento politico, interno e internazionale.


×

Iscriviti alla newsletter