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Terre rare e tregua Usa-Cina. Una boccata d’ossigeno (temporanea) per il commercio globale

Di Nicola Cucari e Alessandro Cascavilla

“La tregua commerciale arriva in un momento in cui i dati confermano un fatto economico già noto in letteratura: i dazi non convengono a nessuno. Per chi li impone, infatti, si traducono in uno shock di offerta; per chi li subisce, invece, rappresentano uno shock di domanda”. L’analisi di Nicola Cucari, professore associato Sapienza Univeristà di Roma, E.r.m.e.s. Startup Universitaria Sapienza e Alessandro Cascavilla, Unitelma Sapienza

Nessun altro materiale incarna meglio la nuova geoeconomia del potere quanto le terre rare. Dietro smartphone, veicoli elettrici, turbine eoliche e tecnologie militari avanzate si nasconde un gruppo di diciassette elementi chimici indispensabili per la transizione digitale ed energetica. La loro disponibilità non dipende tanto dalla natura quanto dalla geopolitica, poiché circa il settanta per cento della produzione mondiale e quasi tutta la raffinazione sono concentrate in Cina.

Da anni Pechino domina l’intera catena del valore, dalla separazione chimica alla produzione dei magneti industriali, controllando di fatto il cuore tecnologico delle economie avanzate. È questo il contesto in cui va letta la nuova intesa tra Stati Uniti e Cina, che sospende i dazi minacciati da Washington e apre una fase di distensione in un settore che oggi pesa quanto l’oro nero del Novecento.

L’intesa sospende i dazi al 100% minacciati da Washington e apre una fase di distensione commerciale. Sebbene nessuna delle due parti abbia diffuso i dettagli completi del nuovo accordo, fonti diplomatiche citate da NBC indicano che Washington avrebbe ottenuto una sospensione parziale delle limitazioni alle esportazioni di terre rare. L’accordo preliminare, descritto come “una base per un incontro produttivo” tra Trump e Xi, include anche impegni cinesi per “acquisti sostanziali” di soia americana, un segnale atteso con ansia dagli agricoltori del Midwest – in particolare Illinois, Iowa, Minnesota e Indiana – che quest’autunno stavano raccogliendo senza nuovi ordini dalla Cina, tradizionalmente il principale acquirente di soia statunitense.

La tregua tra Washington e Pechino, per quanto significativa, non affronta la questione di fondo, cioè la dipendenza strutturale dell’Occidente dalle terre rare cinesi. Si tratta di un equilibrio fragile, perché non riguarda soltanto le materie prime ma anche competenze, infrastrutture e tecnologie che la Cina ha consolidato in decenni di strategia industriale e politica. Il rapporto del Center for Strategic and International Studies (Csis, luglio 2025) sottolinea come Pechino possieda una competenza tecnica senza rivali nelle fasi più complesse del ciclo produttivo, in particolare nella raffinazione e nel processo di solvent extraction, un passaggio cruciale e ad alto valore aggiunto che trasforma il minerale grezzo in materiale utilizzabile per l’industria elettronica, automobilistica e militare.

Diversificare l’approvvigionamento non significa solo aprire nuove miniere al di fuori della Cina, ma anche costruire infrastrutture di raffinazione, formare competenze specifiche e creare condizioni economiche stabili, con incentivi fiscali e contratti di fornitura di lungo periodo per i settori a valle – in primis automotive e difesa. L’obiettivo di ridurre la dipendenza strategica richiede infatti “molto più che un accesso competitivo alla materia prima”. La tregua sui dazi rappresenta quindi un momento di respiro, utile ma insufficiente a modificare le regole di un gioco che, sul terreno delle terre rare, resta ancora saldamente nelle mani di Pechino.

La tregua commerciale arriva in un momento in cui i dati confermano un fatto economico già noto in letteratura: i dazi non convengono a nessuno. Per chi li impone, infatti, si traducono in uno shock di offerta: aumentano i costi di produzione, spingono i prezzi al consumo verso l’alto e riducono la competitività delle imprese. Per chi li subisce, invece, rappresentano uno shock di domanda, perché rendono i prodotti più cari nel Paese che introduce le tariffe e riducono le esportazioni, con un effetto negativo sulla crescita. In pratica, i dazi producono più inflazione e meno crescita.

Negli Stati Uniti, a settembre 2025, l’inflazione risulta stabile al 3%, leggermente inferiore alle attese, ma gli economisti sono tendenzialmente d’accordo sul fatto che i prezzi finali non riflettano ancora il pieno effetto dei dazi. Nel frattempo, con il processo di “dedollarizzazione” in corso, il mercato del lavoro mostra segnali di rallentamento e le prospettive di crescita si fanno più deboli, mentre il deficit federale rimane sopra il 7% del Pil e il Fondo Monetario Internazionale prevede che, entro la fine del decennio, il rapporto debito pubblico/Pil americano supererà quello italiano.

Sul fronte opposto la Cina continua a crescere, ma a ritmi inferiori rispetto alle attese proprio a causa delle tensioni commerciali con gli USA, oltre a difficoltà interne legate al settore immobiliare e alla domanda interna debole.

In questo scenario particolarmente fragile, l’accordo tra Washington e Pechino rappresenta una tregua tattica e necessaria. Mettere il freno a mano alle due più grandi economie mondiali rischia di generare effetti a catena sulle economie più piccole e dipendenti dalle loro catene di approvvigionamento, ormai globalizzate.


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