Formiche.net ha conversato con il professor Moon Chung-in, uno dei principali pensatori sudcoreani in materia di pace e sicurezza, per discutere di come Seul stia gestendo un contesto strategico in rapido mutamento. Dal difficile negoziato con Washington durante il secondo mandato di Trump, alla ricalibratura dei rapporti con la nuova leadership giapponese, fino alla gestione delle complesse dinamiche tra Cina, Russia e Corea del Nord
Mentre Washington e Seul finalizzano un nuovo accordo commerciale e d’investimento, la diplomazia tariffaria di Donald Trump mette alla prova l’autonomia strategica della Corea del Sud. A Tokyo, il pragmatismo di Takaichi si scontra con vecchie dispute, mentre le aperture di Pechino verso Mosca e Pyongyang riaccendono le tensioni della Guerra Fredda nel Nordest asiatico.
Moon Chung-in è una delle massime autorità in materia di politica estera sudcoreana e relazioni intercoreane. Professore emerito all’Università Yonsei, ha contribuito per decenni a definire il pensiero strategico di Seul attraverso la ricerca e il servizio pubblico. È stato consigliere speciale del presidente Moon Jae-in per l’unificazione, la diplomazia e la sicurezza nazionale. Il professor Moon sarà a Roma il 7 novembre per una conferenza pubblica al Guarini Institute for Public Affairs (ore 18), condotta dall’associated director dell’Istituto, il professor Enrico Fardella.
Il nuovo accordo commerciale e d’investimento tra Seul e Washington è stato descritto come uno dei più ambiziosi dalla revisione del Korus del 2018, combinando parità tariffaria, investimenti strategici e resilienza delle catene di approvvigionamento. Qual è il significato più ampio di questo accordo per l’autonomia strategica della Corea del Sud — soprattutto nel bilanciare la cooperazione economica con gli Stati Uniti e le dinamiche emergenti del secondo mandato Trump?
La Corea del Sud ha dimostrato che gli Stati Uniti non possono dettare unilateralmente la natura e la direzione delle relazioni economiche bilaterali. Convinto che Seul si sia arricchita “a spese degli Stati Uniti” e che debba restituire il favore, Trump ha adottato politiche tariffarie aggressive. Ha imposto una tariffa unilaterale del 50% su acciaio, alluminio e derivati a partire dal 18 agosto 2025, seguita da dazi reciproci del 25% su tutti i prodotti provenienti dalla Corea del Sud. Ha anche dichiarato che gli Stati Uniti avrebbero applicato ulteriori dazi elevati su semiconduttori e prodotti farmaceutici.
E poi?
Trump ha poi annunciato che avrebbe ridotto i dazi reciproci al 15% a condizione che la Corea del Sud acquistasse 100 miliardi di dollari di gas naturale liquefatto (Gnl) e altri prodotti energetici e creasse un fondo d’investimento da 350 miliardi di dollari per la cantieristica navale, l’energia nucleare e altri settori manifatturieri. Peggio ancora, Trump ha deciso personalmente come allocare i fondi, pretendendo che il settore pubblico statunitense riceva il 90% del ritorno sugli investimenti. Inoltre, vuole investimenti immediati in contanti. Rispetto alle richieste rivolte all’Ue (600 miliardi di dollari) e al Giappone (550 miliardi), la quota sudcoreana è più piccola, ma rappresenta l’82% delle riserve valutarie di Seul e il 6,5% del suo Pil. In pratica, la Corea del Sud non può permettersi una somma simile in anticipo.
Seul non era pronta ad accettare queste condizioni?
Il duro negoziato di Seul ha portato a un risultato relativamente equo nel recente vertice Rok-Usa di Gyeongju. Dei 350 miliardi di dollari, 150 miliardi saranno investiti nella cantieristica, guidata da imprese sudcoreane con una combinazione di contanti, prestiti e garanzie. I restanti 200 miliardi saranno investiti in dieci anni, con un massimo di 20 miliardi all’anno, e i profitti saranno divisi equamente finché la Corea del Sud non avrà recuperato il capitale iniziale. In cambio, Washington ha ridotto immediatamente i dazi reciproci dal 25% al 15%, inclusi quelli su automobili e componenti. Rispetto a quanto accaduto con il Giappone, l’intesa sudcoreana riflette un risultato più razionale e giusto. Dimostra anche che gli Stati Uniti non possono imporre unilateralmente le loro condizioni — anche se nell’ambito dell’attuale Fta restano elementi di squilibrio.
A proposito di Giappone, con il recente cambio di leadership a Tokyo, la premier Sanae Takaichi sembra perseguire una linea “realistica”, mantenendo un approccio cauto sulle questioni storiche. Pensa che questa fase possa favorire una cooperazione più istituzionalizzata tra Seul e Tokyo — o le sensibilità storiche e interne rischiano ancora di compromettere il coordinamento sulle sfide comuni di sicurezza ed economia?
È troppo presto per formulare un giudizio sul futuro dei rapporti tra Giappone e Corea del Sud sotto la leadership Takaichi. In un recente vertice, il presidente sudcoreano, Lee Jae-myung, e la prima ministra nipponica hanno concordato di promuovere relazioni bilaterali orientate al futuro, senza dimenticare il passato. Hanno anche deciso di collaborare in ambito di sicurezza, economia, società e cultura. Tuttavia, contano i fatti, non le parole.
Se la premier Takaichi continuerà a rendere omaggio al Santuario Yasukuni, a negare le responsabilità del Giappone sui temi delle “comfort women” e del lavoro forzato, a rivendicare la sovranità su Dokdo (chiamato Takeshima in Giappone) e a promuovere la revisione dei manuali di storia, capisaldi della vecchia fazione di Shinzo Abe, l’opinione pubblica sudcoreana reagirà duramente. Il presidente Lee non potrà ignorare tali sentimenti. Ciò che conta è l’atteggiamento prudente, riflessivo ed empatico della premier Takaichi nei confronti del popolo sudcoreano su questi temi.
L’incontro di settembre a Pechino tra Xi Jinping, Vladimir Putin e Kim Jong Un ha simbolicamente riattivato il triangolo tra Cina, Russia e Corea del Nord — per la prima volta dopo sessant’anni. Come dovrebbe muoversi la Corea del Sud di fronte a questo blocco sempre più coeso, cercando stabilità e dialogo con Pyongyang? E questo momento accelera la necessità di rafforzare la deterrenza all’interno di un quadro multilaterale più ampio con Stati Uniti, Giappone e partner affini come la Nato?
Non credo che Pechino, Mosca e Pyongyang abbiano davvero rilanciato l’asse del Nord con la partecipazione dei loro leader alla parata del 3 settembre a Pechino. È vero che, dopo il sostegno militare di Pyongyang a Mosca nella guerra in Ucraina, le relazioni Dprk-Russia si sono intensificate. Ma la Cina non sembra voler formare un asse settentrionale: non vuole il ritorno della vecchia Guerra Fredda nel Nordest asiatico. Se Pechino si unisse a tali sforzi, giustificherebbe la creazione di un triangolo meridionale tra Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud. Per lo stesso motivo, Seul non vuole una nuova logica di contrapposizione che minerebbe la stabilità strategica nella penisola coreana e nella regione. Mantenendo l’alleanza Rok-Usa e la cooperazione trilaterale con Giappone e Stati Uniti, il governo Lee cercherà di rafforzare il partenariato strategico con la Cina e di restare prudente nel partecipare a meccanismi di sicurezza come la Nato.
















