La VII Conferenza Nazionale sulle Dipendenze promossa dal governo italiano e fortemente voluta dal sottosegretario Alfredo Mantovano, ha finalmente incluso tra le dipendenze le schiavitù comportamentali che minacciano la libertà profonda dell’uomo contemporaneo. Una scelta che, di fronte alla crisi antropologica occidentale, fa appello ai diversi saperi ed esperienze dellʼumano. La riflessione di Benedetto Delle Site
La VII Conferenza Nazionale sulle Dipendenze, promossa dal Governo italiano e fortemente voluta dal sottosegretario Alfredo Mantovano, rappresenta molto più di un appuntamento tecnico o sanitario. È, a ben vedere, un segnale culturale e politico che rimette al centro dell’azione pubblica la persona umana: la sua libertà, la sua dignità, la sua vulnerabilità. Ma anche una rinnovata alleanza fra istituzioni, esperti e corpi sociali intermedi impegnati sul campo, fra i diversi saperi ed esperienze dellʼumano.
Nei due giorni di lavori al Centro Congressi dell’Auditorium della Tecnica a Roma, istituzioni, operatori, associazioni e comunità terapeutiche si sono confrontati su un fenomeno che non riguarda più solo l’abuso di sostanze, ma una pluralità di forme di dipendenza – comportamentali, digitali, relazionali – che minacciano la libertà profonda dell’uomo contemporaneo.
Il sottosegretario Mantovano, intervendo ai lavori della Conferenza, ha ricordato che “la lotta alle dipendenze è una priorità per il futuro dell’Italia” e che per la prima volta sono incluse fra gli argomenti anche le dipendenze comportamentali, segnalando come non si tratti soltanto di un tema sanitario, ma di una questione di civiltà.
In questo senso, il videomessaggio di Papa Leone XIV – con la sottolineatura che alcuni “fenomeni, il più delle volte, sono il sintomo di un disagio mentale o interiore dell’individuo e di un decadimento sociale di valori e di riferimenti positivi” e con l’invito a “non lasciare soli coloro che cadono”, a costruire “comunità che accolgono e accompagnano” e “formare la coscienza” , “sviluppare la vita interiore” – ha fornito la chiave di lettura più profonda: la fragilità non è una periferia umana da scartare, ma fa appello alla solidarietà, costituisce un luogo dove la società si misura con se stessa.
Ma per comprendere la portata della sfida antropologica posta da questa Conferenza è utile tornare al magistero di due grandi pontefici che, con lucidità profetica, hanno denunciato il rischio di una “crisi dell’uomo” come questione centrale del nostro tempo.
San Giovanni Paolo II, nella Centesimus Annus (1991), scriveva che “la radice del male contemporaneo va cercata in una visione dell’uomo che considera la libertà non come capacità di scelta del bene, ma come arbitrio slegato dalla verità”. Le dipendenze, in tutte le loro forme – dalla droga al consumo digitale – sono l’espressione concreta di questa riduzione della libertà a istinto, del desiderio a merce, della persona a strumento.
Nella Redemptor Hominis (1979), il Papa polacco aveva già indicato la direzione: “l’uomo è la via della Chiesa”. Ovvero la rifondazione dellʼumanesimo cristiano. Una strada che oggi può e deve diventare anche la via della politica: ogni decisione, ogni intervento normativo o culturale, deve misurarsi con la domanda sull’uomo, su chi egli è, su cosa lo realizza davvero.
Questa Conferenza – nel suo voler unire istituzioni, scienza e comunità – sembra muoversi in quella direzione, riaffermando che la vera cura non è solo terapeutica, ma antropologica e relazionale.
Benedetto XVI, dal canto suo, in Caritas in Veritate (2009), ha scritto parole che oggi suonano come una bussola per ogni società disorientata: “quando l’uomo si considera autore assoluto di sé stesso, la sua libertà perde significato e si autodistrugge”. Le nuove forme di dipendenza – spesso alimentate da tecnologie che promettono onnipotenza e connettività – non fanno che mostrare quanto reale sia quel pericolo: l’uomo che crede di bastare a sé stesso finisce per smarrirsi, consegnandosi a nuove schiavitù.
La prospettiva proposta in questi giorni a Roma appare, allora, come una risposta coerente e necessaria: un ritorno alla centralità della persona, intesa nella sua interezza – corpo, mente, spirito, relazione. È una visione che riconosce che la libertà non è semplice “assenza di vincoli”, ma capacità di orientarsi al bene, di vivere la verità di sé in rapporto con lʼaltro.
In un tempo in cui tutto tende a essere funzionale e misurabile, questa impostazione segna un passo diverso. Parlare di “dipendenze” significa, oggi, parlare di un sistema che produce alienazione e consumo di sé: la dipendenza da sostanze, la pornografia digitale, il gioco d’azzardo online, l’ossessione per l’immagine o per la prestazione non sono che sintomi di una crisi dell’antropologia occidentale. Il nuovo post-umanesimo o transumanesimo sostituisce il volto con l’avatar e la relazione con l’interfaccia ma con quali conseguenze?
Come ricorda don Jean-Pierre Boubée nel suo saggio “Lo schermo. Una droga subdola” (Edizioni Piane), l’uso smodato dei dispositivi digitali non è un fenomeno neutro: può creare una vera e propria dipendenza che altera la percezione del reale, indebolisce la volontà e favorisce la manipolazione delle coscienze. Lo schermo non si impone con la violenza ma con la seduzione, sostituendo alla libertà la gratificazione immediata e alla relazione la solitudine. È così che l’uomo contemporaneo rischia di essere catturato in una forma di asservimento dolce, che mina la sua capacità di pensare, scegliere e amare.
La nostra società non ha ancora avviato una riflessione seria e profonda sugli impatti delle nuove tecnologie, in special modo sui più piccoli, e le sfide morali ed educative che portano con sé. Lʼuomo di questo secolo è cresciuto in scienza, tecnica, tecnologia ma a questa grande salita non è corrisposta altrettanta crescita in sapienza, cioè in una visione onnicomprensiva del reale che consenta alla persona di distinguere i mezzi dai fini è quindi di orientali correttamente.
La risposta alle vecchie e nuove forme di dipendenza che pervadono le nostre società e che affiora anche dalla Conferenza è, dunque, un invito a ricostruire la comunità umana come spazio di libertà e responsabilità condivisa. È una chiamata a educare, a prevenire, a curare, ma soprattutto a tornare a dire – con il linguaggio della politica e della cultura – che ogni uomo vale per ciò che è, non per quello che produce o consuma.
Questa è la vera “scelta antropologica” che il governo, in modo coraggioso e lungimirante, sembra aver assunto: proteggere la persona, ricucire il tessuto sociale, custodire la libertà autentica. Una direzione che richiama la nostra tradizione umanistica e cristiana più profonda, e che trova eco nelle parole di Benedetto XVI: “solo la verità rende libera la libertà”.
In tempi in cui la libertà si riduce a pulsione e la tecnologia diventa la nuova forma di dipendenza collettiva, riscoprire questa verità significa ritrovare la misura dell’uomo. E forse, da questa consapevolezza, può davvero rinascere un nuovo umanesimo italiano, capace di unire radici spirituali, responsabilità civile e visione sociale.












