Il report “China–Middle East Relations After the Twelve-Day War” di ChinaMed esamina le reazioni regionali e la posizione cinese durante la guerra tra Israele e Iran, evidenziando la prudente neutralità di Pechino, il malcontento iraniano per la mancanza di supporto concreto e la critica dei media arabi per l’atteggiamento transazionale. L’analisi di Veronica Turrini, research fellow presso il ChinaMed Project, dove analizza la copertura mediatica della Cina in Iran
La guerra dei dodici giorni scoppiata tra Israele e l’Iran ha generato reazioni contrastanti tra gli attori regionali, sfociate internamente in una riflessione sul ruolo della Cina nel Medio Oriente. Il recente report China–Middle East Relations After the Twelve-Day War del ChinaMed Project del Torino World Affairs Institute, analizza le interpretazioni emerse tra commentatori, esperti e decisori politici in Cina, Iran, Israele e nel mondo arabo, durante e dopo il conflitto. Questo report è stato presentato nell’ambito dei ChinaMed Seminars, una serie di incontri online e aperti al pubblico che offrono l’opportunità di dialogare con esperti sul ruolo della Cina nella regione mediterranea.
Quando il 13 giugno 2025, Israele ha lanciato una serie di attacchi missilistici contro infrastrutture militari iraniane, la reazione cinese è stata prudente, soprattutto nelle fasi iniziali. Pechino ha evitato una condanna esplicita a Israele e agli Stati Uniti e, durante tutta la durata del conflitto, non ha offerto alcun sostegno diretto a Teheran. Tale assenza è stata accolta con serpeggiante malcontento tra gli osservatori iraniani, che si sarebbero aspettati un appoggio più consistente e concreto da parte di Pechino. Sebbene molti commentatori cinesi abbiano riconosciuto all’Iran un ruolo centrale nella visione cinese della sicurezza regionale, la posizione della Repubblica popolare resta tuttavia sfumata. Pur sostenendo che la Cina dovrebbe assumere un ruolo più attivo, al fine di evitare che i propri interessi vengano intaccati, perfino le voci più autorevoli non avanzano proposte concrete su quale forma dovrebbe prendere questo coinvolgimento. Appare anzi evidente come Pechino non sia desideroso di accrescere il peso dei rapporti con Teheran né di approfondire realmente la partnership. Nel frattempo, i media cinesi si sono limitati a rilanciare le dichiarazioni ufficiali iraniane, che hanno pubblicamente ringraziato Pechino per il sostegno espresso sul piano diplomatico.
Nonostante le dichiarazioni ufficiali di gratitudine espresse dai vertici iraniani, i commentatori iraniani lamentano da un lato la mancanza di un supporto più muscolare da parte cinese, dall’altro il crescente isolamento dell’Iran, che si trova sempre più marginalizzato sulla scena internazionale. Contestualmente, tuttavia, non sono mancate voci che hanno interpretato il mancato interventismo di Pechino in linea con la politica estera della potenza: evitare coinvolgimenti diretti, proteggere i propri interessi economici e mantenere la sua reputazione di attore neutrale. In base a tale prospettiva, gli interessi cinesi in Iran, sebbene considerevoli, rimarrebbero comunque limitati e strettamente confinati alle vendite petrolifere e allo sviluppo di strutture legate alla Belt and Road Initiative. Insomma, aspettarsi un netto posizionamento cinese tradirebbe, a detta di alcuni analisti, una sopravvalutazione dei rapporti tra i due paesi. Per concludere, alcuni osservatori riflettono che la soluzione a questo impasse giacerebbe nella ridefinizione della partnership sino-iraniana, unica via per fornire all’Iran maggiori garanzie di sicurezza.
La stabilità regionale resta al centro delle analisi dei media arabi, che osservano il ruolo della Cina alla luce dei propri interessi di pace locali. Benché in un primo momento l’atteggiamento di prudente neutralità di Pechino sia stato accolto positivamente, interpretato come un richiamo alla moderazione e un pragmatismo volto a evitare un’escalation, tuttavia, nel post-conflitto, numerosi media internazionali di lingua araba hanno adottato toni più critici, arrivando a definire la Cina un “amico inaffidabile in tempo di crisi”, la cui diplomazia apparirebbe transazionale e strumentale. Infine, i commentatori arabi si chiedono fino a che punto Pechino possa effettivamente esercitare influenza su Iran e Tel Aviv, considerando sia i legami economici e politici con Israele, sia l’esigenza di tutelare la propria reputazione di attore neutrale e responsabile.
Dall’altra parte, gli esperti israeliani hanno letto l’atteggiamento cinese come un tentativo calibrato di non inimicarsi Tel Aviv e allo stesso tempo di contenere Teheran. Particolare attenzione è stata data alla pressione esercitata dalla Cina sull’Iran affinché non chiudesse lo Stretto di Hormuz, mossa interpretata da alcuni analisti come la prova dell’interesse di Pechino a evitare qualsiasi ulteriore escalation che avrebbe potuto danneggiare i suoi investimenti regionali. Altri commentatori israeliani, invece, hanno sottolineato come il conflitto abbia mostrato i limiti dell’asse anti-occidentale, riflettendo sul fatto che né Cina né Russia abbiano offerto un sostegno effettivo all’Iran. A tal proposito, molte voci invitano Israele a continuare il dialogo con Pechino, considerandolo un attore pragmatico e potenzialmente utile alla stabilità regionale.
A chiusura dell’analisi sulla natura della presenza cinese nella regione, il report dedica una riflessione sul vertice di Sharm el-Sheikh del 9 ottobre, culmine del cessate il fuoco tra Israele e Hamas, a cui non hanno preso parte né le parti firmatarie né Iran e Cina. Quest’ultima, pur intervenendo diplomaticamente in passato, non ha partecipato agli sforzi diplomatici per il raggiungimento del cessate il fuoco, alimentando l’impressione che il presunto declino dell’influenza statunitense in Medio Oriente resti, per ora, un miraggio. Intanto, l’Iran appare sempre più isolato, soprattutto dopo l’attivazione da parte degli europei del meccanismo dello snapback, che riporta in vigore le sanzioni Onu precedenti al 2015.
















