Qual è la logica che guida la Cina nell’espansione digitale in Nord Africa e quali rischi comporta? Risponde Tin Hinane El Kadi, ricercatrice dell’Università di Oxford, nell’analisi di Miriam Verzellino, research fellow di ChinaMed Project, dove segue la cooperazione scientifica e tecnologica tra Cina ed Europa
Nel contesto della crescente competizione tecnologica globale, la Cina sta consolidando il proprio ruolo nei Paesi del Sud globale, e in particolare nel Nord Africa. Qui le imprese digitali cinesi offrono infrastrutture avanzate, piattaforme digitali e finanziamenti competitivi, contribuendo alla modernizzazione delle economie locali.
Durante un seminario organizzato dal ChinaMed Project del Torino World Affairs Institute in collaborazione con l’Università di Napoli L’Orientale, la ricercatrice Tin Hinane El Kadi, dell’Università di Oxford, ha evidenziato come questa cooperazione porti sia opportunità di sviluppo sia nuove forme di dipendenza tecnologica. Proprio per approfondire queste dinamiche complesse, i seminari ChinaMed propongono una serie di incontri online e aperti al pubblico, che offrono l’occasione di dialogare con esperti e analizzare in modo critico il ruolo crescente della Cina nella regione mediterranea.
Secondo El Kadi, l’ascesa delle big tech cinesi – da Tencent a ByteDance, da Baidu ad Alibaba – è stata favorita da politiche industriali mirate, obblighi di trasferimento tecnologico e protezione del mercato interno. Parallelamente, aziende come Huawei e Zte sono diventate fornitori globali di infrastrutture Ict, costruendo reti, data center e cavi in fibra ottica a costi inferiori rispetto ai concorrenti occidentali. Huawei, ad esempio, ha realizzato circa il 70% delle reti 4G africane e oggi guida la transizione verso il 5G. Questa espansione rientra nella Digital Silk Road, l’asse tecnologico della Belt and Road Initiative, che comprende infrastrutture digitali, smart cities, satelliti di navigazione e piattaforme fintech. Egitto e Algeria sono due casi emblematici: il Cairo ospita investimenti in reti, sistemi di sorveglianza e data center nazionali, mentre l’Algeria accoglie la prima fabbrica africana di smartphone Huawei. Le imprese cinesi offrono non solo tecnologia, ma anche assistenza e finanziamenti, risultando particolarmente competitive in economie con accesso limitato ai capitali occidentali. Tuttavia, come osserva El Kadi, questa accessibilità comporta anche un rischio: il lock-in tecnologico rende difficile diversificare i fornitori o adottare standard alternativi.
Uno dei contributi più rilevanti di El Kadi è la messa in discussione della visione della Cina come attore monolitico. Nei mercati nordafricani, le imprese cinesi competono tra loro, come dimostrano i casi di Huawei e Zte negli appalti pubblici. Ciò suggerisce, secondo la ricercatrice, che l’espansione digitale cinese non segue un unico disegno geopolitico, ma dinamiche di mercato più complesse. Questo non esclude il ruolo dello Stato cinese, ma invita a considerare anche l’agenzia degli attori economici e dei Paesi partner.
El Kadi sottolinea come il trasferimento tecnologico rappresenti uno dei nodi più sensibili. Sebbene le imprese cinesi impieghino una quota crescente di manodopera locale, i ruoli tecnici avanzati e le posizioni manageriali restano quasi sempre in mano a personale cinese. Di conseguenza, ingegneri e tecnici algerini ed egiziani acquisiscono competenze operative, ma non hanno accesso alla progettazione o alla gestione strategica delle tecnologie. Dopo la formazione, spesso migrano verso altre multinazionali invece di contribuire allo sviluppo di imprese locali. Il caso della fabbrica Huawei ad Algeri è emblematico: nonostante la produzione sia localizzata sul territorio, tutti i componenti, incluso il packaging, provengono dalla Cina. Analogamente, le Ict Academy di Huawei e Cisco nelle università formano studenti competenti nell’uso delle tecnologie cinesi, ma non nella loro progettazione, rafforzando così una dipendenza strutturale. Secondo El Kadi, le attività di training diffondono competenze digitali, ma creano un ecosistema centrato sul consumo di tecnologia cinese piuttosto che sull’innovazione autonoma.
La questione della sovranità dei dati aggiunge un ulteriore livello di complessità. Il modello cinese, basato sulla centralità dello Stato, è particolarmente attrattivo per Paesi che vogliono maggiore controllo sulle informazioni strategiche. Huawei ha contribuito alla costruzione di data center nazionali in diversi Paesi africani, consentendo la localizzazione dei dati. Tuttavia, come evidenzia El Kadi, la gestione tecnica e la capacità di elaborazione rimangono spesso nelle mani delle imprese cinesi, garantendo una sovranità solo parziale. Senza un reale trasferimento di conoscenze, i Paesi ospitanti rischiano di avere i dati fisicamente entro i propri confini ma non la capacità di controllarli autonomamente. In questo quadro, la cooperazione con la Cina è allo stesso tempo acceleratore di sviluppo e fonte di vulnerabilità.
Secondo la ricercatrice, per i Paesi nordafricani, il nodo cruciale non è se collaborare o meno con la Cina, ma come farlo in modo da trasformare questa cooperazione in un’opportunità stabile e non in una nuova forma di dipendenza. La capacità dei Paesi ospitanti di trarre vantaggio da questa cooperazione dipende dalla loro agenzia politica e dalla volontà di investire in competenze locali e in un controllo più profondo delle infrastrutture digitali. In un contesto globale segnato dalla competizione tecnologica tra Stati Uniti e Cina, le economie emergenti si trovano a dover bilanciare sovranità e interdipendenza, sfruttando le rivalità tra potenze per consolidare la propria autonomia digitale.
















