Fratelli d’Italia punta a mettere le oltre 2.400 tonnellate di riserve auree custodite nei caveau di Palazzo Koch sotto il cappello dello Stato. Ma ci potrebbero essere degli effetti collaterali. Il no comment della Bce e i dubbi degli economisti
Non è uno scontro, non ancora almeno. Però lo potrebbe diventare, se non altro per l’importanza della posta in gioco. La vicenda è quella dell’oro di Bankitalia, ovvero delle gigantesche riserve custodite nei caveau di Palazzo Koch. Nei giorni scorsi Fratelli d’Italia, mediante un emendamento alla manovra a firma Lucio Malan, ha chiesto che le 2.452 tonnellate, costituite prevalentemente da lingotti (95.493) e per una parte minore da monete, diventino di proprietà dello Stato “in nome del popolo italiano”. Emendamento, attenzione, ammesso all’esame della commissione Bilancio del Senato, dunque che ha superato indenne la prima tagliola dell’inammissibilità.
Il concetto sottinteso è che le risorse possano diventare disponibili e quindi possano essere utilizzate. Per fare cosa? L’opzione principale è che ci possa essere l’intenzione di venderne sul mercato una parte per finanziare o una riduzione del debito o misure di politica economica altrimenti senza copertura. Questo stabilisce che le riserve auree, che Via Nazionale custodisce e iscrive nel proprio bilancio come attività proprie, ma che non sono formalmente qualificate come patrimonio disponibile dello Stato, divengano, secondo l’emendamento, proprietà diretta dello Stato.
In altre parole, si mette nero su bianco un principio che in passato aveva già acceso discussioni: le riserve auree, pur inserite nel bilancio di Bankitalia come attività proprie, sono patrimonio dello Stato. La Banca d’Italia continua a detenerle e gestirle, ma lo fa in nome dello Stato italiano. Il sapore, forte, è quello di una dichiarazione di sovranità economica. Ora, quale il possibile impatto del blitz? Tanto per cominciare verrebbe meno il compito di riserva che è attribuito all’oro. Ne potrebbero derivare rischi per la stabilità finanziaria, per la ragione, altrettanto facile da comprendere, che verrebbe meno una copertura dai rischi.
Dal punto di vista finanziario, infatti, l’oro è un efficace strumento di copertura contro eventi avversi. Il suo prezzo tende infatti a salire nei momenti in cui gli operatori finanziari percepiscono un elevato livello di rischio, ad esempio in situazioni di crisi finanziarie. L’investimento in oro può quindi offrire una protezione contro scenari considerati molto rischiosi, sebbene poco probabili. E c’è anche il versante fiducia. La vendita delle riserve in oro potrebbe essere letta, proprio per la loro natura, come una scelta estrema, legata a condizioni di necessità e di emergenza, innervosendo magari i mercati, fin qui decisamente benevoli con l’Italia. Infine, per come è costruito il sistema, una vendita delle risorse in oro di una banca centrale europea avrebbe anche l’effetto di indebolire l’euro.
Non è certo un caso che alla Bce abbiano drizzato le antenne. Proprio da Francoforte è arrivata una nota tanto sobria quanto significativa e fredda: “La Bce non è stata consultata dalle autorità italiane sulla bozza di emendamento, e non ha commenti da fare sul tema”. Un no comment che conferma che la modifica italiana non è frutto di un confronto preliminare con l’istituzione europea che sovrintende al sistema delle banche centrali. Come da previsione, sulla questione si sono scatenate le prime reazioni.
Tra le più autorevoli, quella di Salvatore Rossi, ex-direttore generale della Banca d’Italia dal 2013 al 2019. Il quale, intervistato da MF-Milano Finanza ha spiegato che la mossa del partito di Giorgia Meloni “si scontrerebbe inevitabilmente con il diritto europeo. I Trattati europei affermano che le riserve auree sono di proprietà delle banche centrali e ne vietano l’utilizzo nel bilancio pubblico. Nella pratica è ovvio che le riserve auree appartengano al popolo, perché una banca centrale è un ente pubblico, detiene e gestisce l’oro nell’interesse dei cittadini”. Stessa linea per l’ex dirigente di Bankitalia, Angelo De Mattia, che solleva problemi di stabilità finanziaria, ancor prima che di legittimità.
Non la pensa così Claudio Borghi, da tempo propugnatore del piano oro da Bankitalia al Tesoro e che ha difeso l’emendamento, precisando che la banca centrale detiene e gestisce le riserve auree nazionali, ma non le possiede. “In tutte le banche centrali dell’Unione europea la banca centrale detiene e gestisce, non possiede. Per cui chi dice che quell’oro deve essere della Banca d’Italia come possesso, oppure ancora peggio deve essere della Bce, non sa di cosa sta parlando. Un intervento legislativo per spiegare questa cosa è necessario. L’oro è degli italiani: non lo vuol toccare nessuno, non lo vuol vendere nessuno. Ma proprio perché non lo vuol toccare nessuno, a maggior ragione non voglio che sia toccato dagli altri”.
















