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Chi ha paura di una statua?

Le notizie, che giungono dagli Usa, di atti vandalici contro statue di Cristoforo Colombo, prima, e la decisione di cancellare il Colombus Day, poi, non colgono di sorpresa. È da qualche settimana, infatti, che al di qua e al di là dell’Atlantico si affacciano pulsioni che rapidamente si traducono, nelle parole ma anche nei fatti, in furia iconoclasta.

Un furore, questo, che si scaglia contro le testimonianze architettoniche e paesaggistiche del ventennio italiano qui da noi (ma idealmente possiamo ricollegarvi anche la contestazione della statua di Italo Balbo – trasvolatore, non solo gerarca – a Chicago) per arrivare addirittura – con un salto storico di “appena” 400 anni – a Cristoforo Colombo (accusato di essere un “invasore”) negli States.

Sarebbe tuttavia riduttivo leggere questi accadimenti come un’operazione di cancellazione della memoria (per oscurare parte della storia). Perché la memoria evoca essenzialmente il passato, mentre da molto tempo, in parallelo, analoga operazione viene compiuta sul presente, o – al più – sul passato prossimo.

Nel silenzio più assoluto. Forse è sfuggito ai più, infatti, ma da ormai diversi anni nelle nostre città di statue se ne buttano magari giù, ma non se ne tirano su. Come se non vi fosse nulla o nessuno degno di essere ricordato. Degno, cioé, di fare testimonianza, incarnando un esempio o una scelta etica. In una parola: di diventare, da presente, storia. Dove eccezionalmente ciò è accaduto, ci troviamo dinanzi alla classica conferma della regola.

Il tema vero va allora oltre la storia passata. E il problema non si esaurisce, quindi, nel revisionismo storico. In gioco c’è ben altro: l’identità profonda, delle comunità e dei loro appartenenti. E su questo tema, non di semplice decostruzione parliamo, ma di non formazione, e, prospetticamente, di azzeramento. La questione – a dispetto dell’apparente levità del tema – è tutt’altro che banale.

Può forse sembrare paradossale dirlo, ma la toponomastica (e, quindi, l’intitolazione di una piazza o una via) non vale una statua. Non ha lo stesso impatto visivo, né – di riflesso – quello emotivo. Inoltre, mentre la toponomastica ha una funzionalità (urbanistica, amministrativa, postale, ecc.) che va al di là del piano del ricordo di una personalità, una statua è fine a se stessa, cioé esaurisce la sua utilità nel favorire il ricordo.

Sennonché, il nostro tempo è sempre più allergico alla categoria del “fine a sé stesso”, vocato com’è a misurare ossessivamente ogni cosa con severo metro economicistico. Per non tirar su statue, s’è agitato persino l’alibi della spending review: tirar su una statua costa, e non produce reddito. Un argomento ridicolo.

La verità è un’altra. Una prova? Quando, agli Stati generali del verde urbano organizzati dal ministero dell’Ambiente nel novembre 2015, il ministro Galletti propose di piantumare un albero in tutti i Comuni d’Italia in memoria di Khaled al-Asaad, l’archeologo “custode” della “romana” Palmira ucciso appena mesi prima dall’Isis, pochissimi lo hanno fatto (fra questi, Milano e Sassari). Persino in un caso del genere, non solo niente statua, ma neppure un semplice singolo albero (rispetto al quale, evidentemente, lo spettro della spending non poteva e non può essere seriamente evocato).

La verità è allora che profonde divisioni culturali interne hanno reso in Occidente quasi lacero il tessuto sociale delle comunità locali e nazionali, ormai prigioniero di una sindorme da contrapposizione costante. Essa impedisce a una politica fattasi nel nostro tempo debolissima di trovare il coraggio per tirar su, nelle piazze, una statua (o almeno un albero) in memoria di chi merita di essere ricordato, anche se non piace a tutti. La rincorsa, goffa e disperata allo stesso tempo, a un unanimismo ormai estraneo alla realtà del presente, spiega le tante statue che non ci sono. E adesso, se non si inverte per tempo la rotta con una discussione seria e coraggiosa, si candida a spiegare quelle che potremmo finire con il non avere più.

Quale è l’effetto di tutto ciò? Semplice: popoli senza memoria, senza storia, senza identità, e, quindi, con un futuro ricco di punti interrogativi.

 


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