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Proprio in questi giorni mi sono imbattuto nella pubblicità delle linee aree turche: Turkish Airlines. Lo spot ha come testimonial nientepopodimenoche Lionel Messi e Kobe Bryant campionissimi dello sport.
Lo spot, che certo non brilla per creatività e immaginazione, rimane però nella testa perché chi lo ha visto non avrà potuto fare a meno di pensare, almeno un istante, alla vocazione gobale del vettore anatolico. Dagli ottomani agli ottovolanti, la compagnia di bandiera turca collega più nazioni al Mondo di qualunque altro vettore. E’ globale. E Messi e Bryant sono testimonial che uniscono, come jumbo jet, l’America Latina con l’Estremo Oriente.
Non sono molte le compagnie aeree che di questi tempi possono permettersi di investire in spot con tanto di testimonial costosissimi e globali. Perché, non solo bisogna tirar fuori i quattrini, ma poi occorre che dietro lo spot ci sia un’organizzazione altrettanto globale in grado di far sentire a loro agio, attraverso il ripetersi di standardizzatissime procedure, i passeggeri di tutto il mondo anche quando si trovano nel luogo più tipico ed esotico. Anche quando l’aereo vira sul Corno d’Oro mettendosi di traverso quasi a voler tagliare in due il planisfero, l’Occidente dall’Oriente, lì sopra al Bosforo con un occhio all’Egeo e l’altro al Nero. Ecco.
Chissà come sarebbe fiero di questo spot Ataturk che pose le basi della moderna Turchia: la più occidentale delle potenze orientali e la più orientale delle potenze occidentali.
E viene proprio un senso di tenerezza a vedere o rivedere le pubblicità Alitalia. Un concentrato di provincialismo che corre lungo i decenni come la puzza di naftalina insegue il cappotto di astrakan messo una volta ogni tanto.
Prendete lo spot anni 80, ad esempio. Lo spot mostra un passeggero Alitalia a bordo di un bus, sì sembra strano ma è così, il passeggero è a bordo di un bus ed è contento, è entusiasta di aver iniziato il suo viaggio intercontinentale, con tanto di check-in e consegna dei bagagli da Torino o Genova, ed è diretto a bordo del bus verso La Malpensa da dove decollerà alla volta della sua destinazione. La pubblicità è, in un certo senso, di tipo comparativa perché il passeggero entusiasta, mentre viaggia a bordo del bus Alitalia, non fa che pensare, gioendo ancora di più, al suo collega/amico che invece si è dovuto alzare presto per compiere lo stesso volo con un’altra compagnia aerea (straniera) con più scali, magari da Francoforte o Amsterdam.
Oppure, andate a rivedere lo spot di qualche anno fa, quello in cui Raul Bova faceva da testimonial.
Raul Bova è seduto a fianco di un amico e sta per partire per un viaggio intercontinentale: – Sai che mi trovo meglio qui che a casa? – e l’amico gli risponde – Ma quella – riferendosi all’hostess – non è tua moglie? – E Raul Bova chiosa – Sì, ma a casa mica si comporta così – .
Altro che spot globale. Qui non si può parlare neanche di provincialismo, semmai di familismo che, poi, è forse la vera forma identitaria del belpaese. Sic!
Quello che lascia disarmati, nel vedere questi spot, è pensare a come sia stato possibile che, a una compagnia di bandiera, di un paese dalla così spiccata vocazione turistica, non sia mai venuto in mente di realizzare spot che mostrassero i volti dei turisti di tutto il mondo che, grazie all’Alitalia, possono raggiungere l’Italia e le sue bellezze. Quello che disarma è pensare che gli spot siano stati concepiti per fare una narrazione che seduce qualche dirigente della compagnia mostrando il vissuto dell’uomo d’affari o qualche vip di cui c’è sempre bisogno di circondarsi perché la propria esistenza sia vera.

Alitalia: quante cose ci dice uno spot

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