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Questo articolo è stato pubblicato su L’Arena di Verona e Brescia Oggi.

Come si dice “cricket” in italiano? La domanda non è così oziosa, da quando gli inglesi, in lontana epoca rinascimentale, hanno dato questo nome intraducibile allo sport di squadra più popolare al mondo dopo il calcio. Ma che si gioca soprattutto nei Paesi del Commonwealth.

Oggi c’è qualcosa di nuovo e importante anche in Italia. Il “nostro” cricket sta sperimentando una silenziosa rivoluzione che la Nazionale dei molto più famosi Balotelli, El Shaarawy, Ogbonna, cioè dei tanti azzurri nati o cresciuti in Italia ma figli di immigrati, ha sperimentato con grande difficoltà nell’ottenere la formale “cittadinanza italiana”. Invece nel cricket è in corso una piccola, grande novità: sentirsi ed essere riconosciuti come italiani a dispetto della burocrazia, della polemica politica, dell’identità difficile perfino da catalogare, perché frutto di luoghi, storie, famiglie e realtà diversi.

A differenza di altri sport, il cricket “made in Italy” e il suo regolamento internazionale consentono di giocare in Nazionale ai figli di stranieri nati o residenti in Italia dai quattro ai sette anni a seconda delle categorie. E allora tanti giovani rappresentano l’Italia, pur non avendo ancora, molti di loro, il passaporto italiano.

Ecco il miracolo riuscito, ecco l’incrocio felice tra ius soli e ius sanguinis, cioè il mix tra ragazzi e ragazze nati in Italia ma figli di pakistani, indiani, bengalesi e srilankesi con oriundi italiani provenienti dall’Australia, dal Sudafrica, dalle Americhe. Come testimonia la storia di Harpreet Singh, partito con la mamma dall’India che era un bambino, per “ricongiungersi” col padre che mungeva le mucche a Mondovì. Harpreet ha vinto l’europeo degli azzurrini (sotto i quindici anni) già nel 2009 insieme con ragazzi che si chiamano Muhammad Waqas Asghar, Alamin Mia, James Fort, Edoardo Scanu, Swad Sahidul Islam, Salman Zaman e molti altri che cantano l’inno di Mameli con tenerezza e indossano la maglia azzurra con orgoglio. Italiani a tutti gli effetti per loro stessi e per il mondo, ma spesso non ancora per l’Italia, dove la discussione sulla cittadinanza per i “nuovi italiani” è troppo astiosa e ideologica, e la politica fatica a stare al passo con la “società civile” che anche nello sport marcia da tempo in avanti per conto suo.

Adesso c’è pure un libro che racconta queste belle storie di italianità in cammino. Ma “Italian cricket club”, firmato dai trentenni Giacomo Fasola, Ilario Lombardo e Francesco Moscatelli (add editore, Torino), va oltre le lunghe partite e il classico battitore che cerca di colpire la palla con mazza, guanti e gambali. Parlano i protagonisti come Simone Gambino, presidente della federazione italiana di cricket. Fu iniziato a questo sport dai racconti del nonno materno che viveva a Londra (mentre il padre era una firma storica de l’”Espresso”). “Il cricket dimostra che i figli degli immigrati possono dare anche lustro e non soltanto ricchezza all’Italia”, dice Gambino.

In campo scendono undici ragazzi contro undici. Vestiti di bianco, ma col Tricolore nel cuore.

f.guiglia@tiscali.it

Tutti gli italiani del cricket

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