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Spunta il nome dell’uomo più ricco della Cina nella vicenda di presunta autocensura che ha messo in imbarazzo Bloomberg. Secondo “diverse fonti” che conoscono bene la storia sarebbe attorno alla figura di Wang Jianlin, fondatore del gruppo Dalian Wanda, un colosso che spazia dall’edilizia alle sale da cinema, che ruota l’inchiesta sui rapporti economici tra uomini d’affari e le alte sfere della politica cinese, compresi membri del comitato permanente del Politburo, bloccata dall’agenzia per evitare di innervosire la dirigenza di Pechino.

Lo riferisce il Financial Times, nel sottolineare tuttavia come al momento non ci siano prove certe del legame di Wang, la cui ricchezza è stimata in 14 miliardi di dollari, con funzionari cinesi e che la Wanda ha preferito non rispondere alle domande del quotidiano della City.

Resta però il caso sollevato sabato dal New York Times che, nel giorno dell’apertura dei lavori del terzo plenum del diciottesimo comitato centrale del Partito comunista, ha rivelato del colloquio con cui il direttore dell’agenzia, Matthew Winkler, annunciava ai reporter che l’inchiesta sulla quale lavoravano da un anno non sarebbe stata pubblicata.

“Così com’era non era pronta”, ha spiegato Winkler al Financial Times. Ma come riferito al New York Times dietro ci sarebbe un tentativo di poter continuare a lavorare in Cina, studiato tenendo a mente le strategie per arginare la censura nella Germania nazista.

Bloomberg ha già avuto un proprio cartellino giallo da Pechino. Il sito è inaccessibile dai server cinesi sin dall’inchiesta dello scorso giugno sui patrimoni dei leader cinesi, compreso l’attuale presidente Xi Jinping, nominato un anno fa segretario generale del Partito comunista. Sorte che l’agenzia finanziaria condivide con il New York Times, bloccato in risposta all’inchiesta sulle ricchezze accumulate dalla famiglia dell’ex premier Wen Jiabao.

Sullo sfondo c’è tuttavia l’altro ramo d’interesse di Bloomberg per la Cina, ossia la vendita dei servizi finanziari alle grandi aziende di Stato, anche queste in rotta dopo l’inchiesta di un anno fa.

Nella stessa giornata sempre il quotidiano newyorkese riferiva della decisione di Pechino di non concedere il visto giornalistico per conto della Reuters a Paul Mooney, reporter di lunga data in Cina, dove ha trascorso 18 anni con un accredito per il South China Morning Post, prima di tornare l’anno scorso negli Usa. Mooney è conosciuto per l’attenzione alla tutela dei diritti umani e alla questione tibetana. Il colloquio per ricevere il visto terminò con un’esortazione a una copertura “più equilibrata” delle vicende cinesi.

Come nel caso della corrispondere di Al Jazeera, Melissa Chan, espulsa dal paese per il lavoro sulle carceri illegali, anche Mooney, come per e difficoltà di altri reporter a ricevere il visto, sembra essere vittima dell’insicurezza cinese scrive Mary Key Magistad sul suo blog. In molti si chiedono inoltre come si dovrebbero comportare organi di stampa meno forti rispetto a Bloomberg, New York Times o Reuters. Per altri commentatori invece è giunto il tempo di trattare allo stesso modo anche i giornalisti cinesi che richiedono il visto per gli Usa.

Twitter: @AndreaPira

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