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E’ noto a chi voglia rimanere puro di cuore: in Italia, coltiviamo lo sport ereditato, in tono minore, dalle piazze rinascimentali: la chiacchiera. Si chiacchiera e ci si lamenta di molte cose, tra le quali una domina, da un pò di tempo a questa parte: la perdita della memoria.

Prima la memoria era un tema di destra; oggi è stato sdoganato ed è diventato un tema da sbandierare come si fa col Tricolore, in presenza del sindaco e del prefetto (magari anche del vescovo, perché no?): tutti ne parlano e pochi distinguono.

Infatti: c’è memoria e memoria. Se ci sta a cuore l’italianità come sorgente viva di una cultura che ha costruito il sentimento unitario della nazione e, con esso, ha tirato su per secoli intere generazioni di italiani, allora dobbiamo mettere a tema non la Resistenza e basta, magari tinta esclusivamente di rosso, perché le stanze di una casa con le pareti monocrome sono come quei pensieri monocorde che, alla fine, sanno di delirio e spaventano.

No, la memoria ha una vastità generativa di ben altro sapore e spessore; direi anzi che la memoria si situa proprio nel centro dell’esperienza umana, dunque del vivere, soffrire e morire, di conseguenza ha un aspetto biologico e insieme metafisico: riguarda i corpi e le anime. Tutto, il Tutto di noi. Ecco il punto.

Vivere la memoria come dimensione generativa significa farla rivivere nell’istante come un evento che accade e riaccade, turbando le coscienze ma anche ridestandole dal misero piattume quotidiano, di cui oggi, in età di crisi strombazzata come ultima thule del vivere, siamo pieni fino a scoppiare.

Per far questo, occorre un dramma. Sì, proprio un dramma, un dramma teatrale, uno spettacolo, come accadeva nella storia antica con la tragedia o con il teatro shakesperiano: un canovaccio che si fa presente, miniatura di un cosmo altrimenti indecifrabile e soverchiante, inscatolato con sopra la scritta: “rispedire al mittente”.

E il dramma vero, l’evento vero, è accaduto: il 22 ottobre, al Teatro Stabile Rossetti di Trieste, è stato messo in scena lo spettacolo di quel singolare personaggio, con tratti che sarebbero piaciuti non poco a Walter Benjamin, che risponde al nome di Simone Cristicchi, lo stesso “matto” che mise in parole la sofferenza dei malati di mente, e lo fece al Festival di Sanremo, qualche anno fa; un artista che ama la parola come evento e segue quel fascino dell’ “impero dei segni” di cui parlava Roland Barthes molti anni fa a proposito del Giappone: “Magazzino 18”, questo il titolo.

Perché “Magazzino 18”? Cristicchi l’ha spiegato in un’intervista uscita su “Libero” alcuni giorni fa: Si chiama così quello spazio che conserva la storia minuta e grande, pur nei dettagli, dei profughi istriani, le masserizie degli esuli, segni di presenze mai riconosciute se non dalle famiglie, oggi ancora in attesa del riconoscimento di quanto loro sottratto.

Ben più che masserizie sono state sottratte al popolo istriano e al mondo istriano-giuliano-dalmata nel suo complesso, a quel significativo microcosmo, così ricco di cultura e sàpido per umanità e sensibilità di popolo, inserito in un vasto macrocosmo balcanico e inscritto nell’Impero Austro-Ungarico: il diritto ad essere se stessi ed oggi al ritorno nelle terre di origine come italiani, con quanto di segno e verità porta con sé questa richiesta, ormai annosa. Le foibe, sdoganate a sinistra per ragioni di cattiva coscienza e utilità padronale della politica, dicono ben altro: quel sangue parla un’altra lingua.

Cristicchi, nato a Roma e, come chi scrive, in quanto nato a Grosseto, certamente non di origini istriane, ha fatto sua – abbiamo fatto nostra – questa causa, per una ruvida e immediata ragione: è cosa che ci riguarda intimamente, come italiani.

La causa è cosa realmente a noi afferente, ci stringe dentro come il cordone della memoria, è il contorno dei nostri occhi storici, perché, finché l’italianità non avrà allargato il suo orizzonte fino a giungere alle coste orientali dell’Adriatico, a lambire e poi entrare nel magma balcanico, fino ad allora, di Italia avremo solo sentore localistico e provinciale, senza il dramma dello scacco di un pezzo di noi.

Di tutti coloro, cioè, che, a causa della violenza dei comunisti jugoslavi, legittimati questi ultimi dagli americani, grazie al Trattato di Parigi nell’immediato dopoguerra, si sono dovuti allontanare dalle terre delle loro vite e del loro domani, per ritrovarsi prima profughi e poi esuli in patria, un duplice schiaffo – ecco il punto – non a Loro, ma anche a Noi, oggi.

Perché l’italianità è una cifra assai più larga e giunge fino a dove nelle scuole non si sa, purtroppo, fino a toccare terre come quelle bagnate dal Quarnaro – che D’Annunzio sia ancora testimone! – e che sono profondamente veneziane, basti pensare alla Cherso che ho visto a settembre con i miei occhi Insieme all’amico Antonio Ballarin, Presidente dell’Associazione Nazionale Venezia-Giulia Dalmazia, grazie a lui, figlio di quella storia, di profughi, inserito nel cuore dell’esodo che non sembra aver fine : una Venezia in sedicesimo.

Cristicchi, a Trieste, dopo giorni di assordanti e sgangherate polemiche, ha narrato e cantato tutto questo, con la passione bambina dell’artista che lo contraddistingue, con il fiato del Puer Aeternus, e ha incantato la platea, perché la memoria attrae ancora l’uomo alla sua anima più profonda e poi lo rialza verso lo spirito, là dove lo attendono nuovi pensieri e nuovi angeli del futuro.

Uno spettacolo-comunione, una laica eucarestia, come rendimento di grazie e sacrale afflato verso ciò che ancora sancisce il Noi come qualcosa di più grande di una somma di tanti piccoli io, perché il tutto è più della somma delle parti. Sempre.

In un’Italia, figlia di quella vergogna sancita dal Trattato di Parigi, con i soliti “moderati”, di centro, destra e sinistra a farla ancora da padroni, una radicalità pacifica come questa, una violenza sacra che dice no al politicamente corretto e al triviale acquietarsi nelle stanze e nei palazzi, rimuovendo così la durezza della realtà e sublimando lo spessore della storia, ha qualcosa di divino e di salutare, nel senso di portatore di salvezza. Nel presente.

Tutto questo è accaduto a Trieste, in un teatro stracolmo e gonfio di persone pronte a rimettersi in gioco, a tutte le età: se la memoria ha un significato, occorre che vi siano volti e corpi a decretarlo: qualche volta accade. E’ accaduto, a Trieste, il 22 ottobre 2013.

Da qui si riparte.

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