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Lo tsunami di sangue del Medio Oriente non distingue fra vittime e carnefici, fra violenza e vendetta. È la diabolica trappola nella quale rischia di cadere Israele. Non soltanto per l’esasperazione incontrollata della reazione che non fa distinguere fra i terroristi di Hamas e la popolazione palestinese usata come carne da macello per tappezzare di scudi umani i rifugi sotto i quali i fondamentalisti si nascondono, ma soprattutto per la tentazione già segretamente manifestatasi in queste terribili ore di utilizzare armi atomiche tattiche per farla finita con l’Iran e gli hezbollah libanesi.

La trappola innescata dalla deliberata disumana ferocia del blitz di Hamas consiste proprio nell’accecare talmente d’odio e di pulsione di vendetta i vertici politici e militare di Israele fino a spingerli a scatenare un conflitto nucleare locale, quanto meno contro Teheran, il braccio operativo della strategia della guerra globale, vero obiettivo della scientifica deflagrazione dell’intera area mediorientale. Una deflagrazione che presupponeva una inarrestabile reazione a catena fino al superamento del limite dei conflitti convenzionali.

La tempestività con la quale il segretario di Stato americano Antony Blinken è accorso a Gerusalemme lascia intravedere la gravità dell’allarme e la preoccupazione con la quale Washington si è precipitata a scongiurare l’irreparabile. Fermato il conto alla rovescia di un’apocalisse nucleare, ridotta, circoscritta, ma pur sempre imprevedibilmente umanamente, sanitariamente ed economicamente apocalittica, resta da trovare una più stabile soluzione in attesa di risolvere o almeno tamponare quella che da 75 anni è l’irrisolvibile questione israelo-palestinese.

Una soluzione che purtroppo attende da decenni l’intervento decisivo di un Onu fantasma e inesistente, paralizzato dai veti di Mosca.

Lo tsunami di sangue del disumano blitz di Hamas e della reazione dell’esercito di Tel Aviv amplifica intanto ulteriori spirali di odio che senza risolutive soluzioni internazionali sono destinate a esplodere fra qualche anno e a innescare ulteriori vendette in un infinito avvitamento di atrocità.

In attesa che si diradi la violenza degli scontri in corso a Gaza e al confine con il Libano, gli scenari internazionali – nonostante le interpretazioni mediatiche che si basano sulle disinformazioni di Mosca – fanno prevedere un’ulteriore isolamento della Russia di Vladimir Putin che tutte le intelligence occidentali ritengono sia l’ispiratrice e l’organizzatrice della vampata destabilizzatrice del Medio Oriente per guadagnare tempo sul fronte ucraino, dividere e indebolire il vasto schieramento di paesi che sostengono Kyiv.

Come per la fallita invasione dell’Ucraina, le iniziative occulte del Cremlino per fare esplodere il vulcano bellico mediorientale si prospettano tuttavia controproducenti e destinate a far decidere la Cina ad abbandonare al proprio destino uno pseudo alleato che pur di realizzare il proprio piano di restaurazione zarista, mette a rischio la stabilità globale e compromette l’assetto economico mondiale.

Un assetto economico commerciale vitale e assolutamente prioritario in questo momento per Pechino.

“Non possiamo morire per Putin, la Russia ha superato il punto di non ritorno e sta destabilizzando anche il rapporto con la mina vagante della Corea del Nord” è l’univoca conclusione delle analisi dei vertici che fanno capo a Xi Jinping. Abituati ad agire in silenzio e sottotraccia i cinesi avrebbero già fatto pervenire all’élite moscovita alla nomenclatura degli apparati russi segnali di insofferenza sulla strategia di Putin. Nessuna lamentela invece con il presidente russo.

Evidentemente prima di diventare una frase ripetuta spesso da Napoleone Bonaparte la considerazione “Non interrompere un avversario mentre sta facendo un errore” era originariamente un proverbio cinese.

Ecco la trappola tesa da Putin a Israele. L’analisi di D’Anna

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