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Un giacimento prezioso di risorse e opportunità di sviluppo. Che non viene valorizzato perché la classe dirigente privilegia, con decine di miliardi di euro ogni anno, comparti industriali assistiti e improduttivi. Così si presenta il tessuto di aziende attive nella ricerca e creazione delle biotecnologie in Italia alla luce del Rapporto 2013 redatto da Assobiotec, presentato martedì 1 ottobre alla Sala Nassirya di Palazzo Madama.

Ritardo tanto più grave visto che la Commissione Europea ha identificato le biotecnologie tra le tecnologie in grado di contribuire al rilancio di molteplici settori dell’industria tradizionale e alla gestione delle sfide che siamo chiamati ad affrontare nel campo della salute, dell’agricoltura, dell’energia e dell’ambiente. Un terreno che abbraccia le colture agricole di organismi geneticamente modificati e la sperimentazione animale a scopi medici fino alla ricerca scientifica sulle cellule staminali. E che nell’Unione Europea vale 2mila miliardi di euro, dà lavoro a 20 milioni di persone, e coinvolge l’1 per cento di spesa del PIL comunitario.

È per questa ragione che le istituzioni politiche del Vecchio Continente hanno deciso di promuovere dal 30 settembre al 6 ottobre la “European Biotech Week”, in occasione del 60° anniversario della scoperta cruciale della struttura del DNA.

Luci e ombre dell’industria biotech 

A disegnare il panorama del business legato alle biotecnologie nel nostro Paese è l’Advisory Life Science Leader di Ernst&Young Antonio Irione. Il quale ha parlato di una tecnologia applicabile a differenti ambiti produttivi, oggi neanche immaginabili. Un comparto economico il cui altissimo livello di investimento in ricerca e innovazione ammonta al 45 per cento del fatturato, senza confronti con gli altri settori industriali. Attualmente il biotech vale in Italia più di 7 miliardi di euro e occupa 7mila persone qualificate e 55mila lavoratori nell’indotto, con un incremento annuo del 6,3 per cento. Gran parte delle strutture produttive, più della metà, sono micro-aziende che si auto-finanziano con i frutti delle proprie ricerche. Aggregando competenze e servizi che “fanno sistema”, sono riuscite a creare una realtà dinamica di 256 imprese di pura ricerca biotecnologica su 407 complessive.

Grazie a una rete di iniziative così vitale l’Italia si attesta al terzo posto nell’Ue dopo Germania e Regno Unito. Ma si colloca in fondo alla graduatoria in Europa per capitale di rischio raccolto, pari quasi a zero. Il settore in cui meglio e più efficacemente si dispiegano gli effetti della ricerca e dell’industria biotecnologica è la salute: oltre 325 milioni di persone curate in 30 anni, con 480 medicinali e vaccini testati. Nelle “Green Biotech”, attive nel campo nutrizionale, della sicurezza alimentare e della salvaguardia ambientale, le aziende operanti sono 85 per un fatturato complessivo di 110 milioni di euro. Nel settore industriale – carburanti, plastiche, prodotti chimici – le imprese registrate ammontano a 62 per un volume di affari di 276 milioni.

Le proposte degli imprenditori

La scarsa capacità di capitalizzazione e di attrazione di risorse di un settore potenzialmente all’avanguardia sul piano globale – per utilizzare le parole pronunciate nel 2009 dall’allora governatore di Bankitalia Mario Draghi – richiede un pacchetto di iniziative tanto più urgenti in un comparto che tocca molteplici aspetti della vita umana e che nel nostro paese può contare su un numero e una qualità eccellente di pubblicazioni dei ricercatori in rapporto al PIL e agli abitanti. Ma che, spiega il presidente di Assobiotec Alessandro Sidoli, “vanta 1 miliardo di euro annuo di crediti verso la pubblica amministrazione mentre lo Stato, con il Fondo di investimento e il Fondo strategico italiano di Cassa depositi e prestiti, continua a spendere risorse rilevanti in settori poco fecondi”. Per evitare di “trasformare l’industria biotecnologica in un supermercato per gruppi stranieri”, l’organizzazione di imprese associate a Federchimica propone “un credito d’imposta del 10 per cento, che costerebbe 800 milioni di euro annui e produrrebbe un investimento di 4 volte superiore”.

La risposta della politica

Il grido di allarme proveniente dagli imprenditori del Biotech trova un’iniziale accoglienza nel ceto politico. A partire dal senatore del PDL Luigi D’Ambrosio Lettieri: “Rispetto al rischio che le multinazionali straniere vengano a fare shopping dei frutti della creatività e laboriosità italiana, è necessario favorire un processo di modernizzazione di una realtà che registra 109 brevetti in un anno e vive di una dimensione aziendale medio-piccola. Ma per farlo bisogna dare respiro al settore con una tassazione dignitosa, promuovendo un’alleanza politica trasversale che impegni i governi in tale direzione”.

Tuttavia la sfida da intraprendere in un paese ricco di corsi di laurea che ruotano attorno alle biotecnologie ma non offrono sbocchi lavorativi è innanzitutto culturale, come mette in risalto Ilaria Capua, parlamentare di Scelta civica e ricercatrice oggi impegnata in politica: “L’Italia che con Galileo ha inventato il metodo scientifico spesso non lo applica. Pensiamo alla drammatica vicenda riguardante l’adozione del metodo “Stamina” in cui l’approccio emotivo ha prevalso sul rigore della ricerca medica. E consideriamo le tesi restrittive e fondamentaliste prevalenti nella discussione pubblica sull’applicazione degli OGM e sulla ricerca clinica sugli animali, fondamentale per la creazione di farmaci immunologici e di vaccini”. Risiede in questa arretratezza, rimarca la parlamentare-ricercatrice, la ragione per cui l’Italia non attrae investimenti biotecnologici dall’estero.

Lo sapete che l'Italia è fanalino di coda per investimenti nel biotech?

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