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La vittoria alle primarie di Matteo Renzi è sicuramente un fatto politico importante: importante per la sinistra; importante per il centrodestra; importante per la democrazia italiana. Non soltanto, infatti, è emerso ieri un forte elemento di partecipazione popolare alla politica, quasi due milioni di partecipanti al voto, ma il candidato che ha vinto con il 70 % è sicuramente il rappresentante di un nuovo generazionale che ha concretamente la possibilità di incidere costruttivamente nella società mediante una riforma del PD e della politica nazionale.

Anche i proclami immediati, al netto di un entusiasmo difficilmente biasimabile, sono interessanti. Renzi ripete la sua sensibilità a favore del bipolarismo, segnando una linea di confine per ogni forma di panacea confusionista. Quest’ultimo proposito è il più considerevole, perché guarda avanti, aprendo uno spazio necessario all’ingegneria politica che dovrà adesso essere messa in campo con astuzia e cura da tutti, sia nel centrosinistra e forse ancora di più nel centrodestra, muovendo proprio dall’azione del nuovo segretario.

Da qualche tempo, con l’uscita dei margheritini, il ruolo di SEL e della sinistra radicale è stato annullato, o, per meglio dire, attenuato da un PD che ha ormai una continuità secca con quanto dal PCI al PDS ha portato al consolidamento di un partito antico diventato oggi renziano nella sua dirigenza. E’ auspicabile, in tal senso, che il collateralismo sindacale con la CGIL e altre anomalie del genere siano finalmente lasciati cadere nel passato perché non più necessari ai bisogni concreti rivelati dagli elettori progressisti. Nonostante tutto, molti problemi restano ancora irrisolti. Le differenze interne al mondo democrat non sono automaticamente superate, infatti, con questa vittoria. In primis, come rilevava oggi sul Corriere Antonio Polito, vi è la complessa gestione dell’apparato nazionale e locale. Non si tratta, a ben vedere, di una struttura che sia utile rottamare, perché è il punto di forza materiale della sinistra; ma, al contempo, non può neanche restare così com’è, perché, così com’è, è incapace d’intercettare la dinamica evolutiva delle riforme che le primarie hanno evidenziato essere nelle corde del popolo di sinistra. La sfida renziana è proprio questa: cambiare il partito senza distruggere i suoi punti di forza tradizionali.

D’altronde, conviene ripeterlo, a ogni buon conto: il proponimento di restare dentro lo schema bipolare è molto più essenziale di quanto sembri, e superiore a qualsiasi muscolosa ostentazione di certezze sulle riforme costituzionali, sulla sopravvivenza del Governo d’intese minime e su un’auspicata innovazione condivisa della legge elettorale, ormai frammentata dal martello della Consulta. Un Paese, nei fatti, non migliora se ci s’intende tutti per forza su tutto, ma se è data agli elettori una dignitosa possibilità di scelta rappresentativa dei propri differenziati interessi contrapposti.

Stimolante, pertanto, è l’accelerazione della direzione di marcia che questa vittoria del sindaco di Fiorenze produrrà nel centrodestra. Berlusconi appare, comprensibilmente, schiacciato sulla linea autodifensiva di un partito, la neo Forza Italia, che è il presidio legittimo di una famiglia, di una storia e di un consenso personale. La Lega spera di trovare sulla variante spericolatamente euro scettica una nuova prospettiva con il neo segretario Salvini. Perciò il Nuovo Centro Destra acquisisce inevitabilmente una funzione assolutamente cruciale proprio per Renzi, sebbene per ora sia esclusivamente il muoversi timido di un movimento in gestazione.

Alfano potrebbe accogliere da par suo, cosa che appare, a dire il vero, abbastanza pacifica, il dogma del bipolarismo, dandogli un’interpretazione funzionale al mantenimento e all’accrescimento dei consensi anti renziani presenti nel Paese, senza spegnere il lume della sua prospettiva sotto il moggio dell’avvitato destino di Berlusconi o dietro velleitarie attese trasformiste. Questo vuol dire, tradotto in italiano, che è venuto per Renzi e Alfano il momento della politica vera, quella che organizza l’elettorato, che fa strategia, tesse alleanze, ma anche facilita, con un buon rapporto di muta legittimazione, l’evoluzione complessiva del quadro politico, in modo conforme alle distinte necessità elettorali degli uni e degli altri.

Non è il momento ancora per Renzi di guardare a tutto il Paese. Come non lo è per Alfano. A questo deve pensarci Letta e il suo Governo, garantendo ai diversi partiti della maggioranza di essere o di diventare partiti veri, secondo i casi, senza distrazioni. E’ il momento semmai per ciascuno di rinsaldare e riformare la propria parte, e per Renzi in specie di generare una reazione benefica a catena che spinga il NCD a essere l’interlocutore antagonista per eccellenza di un PD che si rinnova, supportato, per l’appunto, dal buon esito della sua trasformazione da partito personale a organizzazione collegiale.

Se, dunque, Renzi sarà bravo, se il suo impeto a cambiare tutto e la sua ambizione ad affermarsi personalmente non avrà il sopravvento sulla razionalità di una prospettiva efficace per l’intero Paese, allora potremmo trovarci domani ad avere una competizione democratica non più tra berlusconiani e antiberlusconiani, ma tra riformisti e conservatori. Tale probabile scenario dovrebbe stimolare la neonata creatura guidata da Alfano a lavorare finalmente alla creazione di una cultura popolare e moderata di supporto a una politica che si presenti come opposta nella sostanza, ma non nello stile, al centrosinistra.

All’Italia, quindi, conviene fare i migliori auguri di buon 2014.

Renzi e le attese di un nuovo bipolarismo

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