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Grazie all’autorizzazione dell’autore, pubblichiamo il commento di Federico Guiglia uscito sull’Arena di Verona

Poche cose come i referendum rispecchiano l’Italia che cambia, ma soprattutto quella che non cambia. Paladini, come al solito, i radicali. E anche in questa tornata di dodici quesiti su una decina di temi c’è il riflesso delle due Italie.

Da una parte una classe dirigente costretta a innovare sull’onda del voto popolare (divorzio, aborto, sistema elettorale maggioritario e altre novità legislative). Dall’altra e più spesso si rispecchia un potere del tutto indifferente al verdetto dei cittadini.

Gli esempi si sprecano, dalle questioni a suo tempo poste con le consultazioni sulla “giustizia giusta” ai ministeri aboliti, ma risorti con altri nomi in Parlamento.
Tuttavia, nulla è tanto emblematico di questo “chi se ne importa” nei confronti degli italiani, quanto il finanziamento pubblico ai partiti.

Siamo al primato assoluto: è la terza volta che i radicali propongono tale quesito. Ma siamo anche all’ipocrisia assoluta. Dal Pdl al Pd passando per il governo-Letta, tutti avevano giurato che avrebbero presto abolito questa forma di finanziamento contro la quale Beppe Grillo ha ingaggiato una delle sue principali battaglie, ottenendo alti consensi dai cittadini. Perfino a sinistra, dove molti dirigenti contestano l’abrogazione totale del denaro dello Stato ai partiti, “perché altrimenti la politica la farebbero solo i ricchi”, tutti però concordano sull’idea almeno di riformare la legge che ha fallito, tanti e tali sono gli scandali che ha provocato.

Basterebbe ricordare che la prima Repubblica è crollata sull’onda del finanziamento alla politica andato ben oltre e con modalità illecite rispetto a quanto, generosamente, già prevedeva la legislazione. Basterebbe citare le inchieste che nelle Regioni hanno scoperto, in questi mesi, che cosa troppi consiglieri, e di ogni colore politico, combinavano con i nostri soldi. Basterebbe un nome, per non dimenticare: Batman. Insomma, nemmeno nel Palazzo qualcuno, oggi, si azzarda a voler lasciare le cose come stanno.

Eppure, a fronte dell’esperienza, delle promesse e dell’opinione furente degli italiani, nulla di concreto è successo in Parlamento da quando è nata, più di sei mesi fa, questa fragile e conflittuale legislatura. Il referendum per abolire il finanziamento pubblico ai partiti suona di un’attualità imbarazzante, pur essendo la terza volta che viene presentato. Attualità contro un sistema da sempre del tutto sordo all’abrogazione, se si pensa che tale quesito è stato proposto nel 1978, nel 1993 e adesso nel 2013.

E soltanto la prima volta i cittadini dissero di volerselo tenere, siffatto finanziamento, pur dividendosi quasi a metà (56,4 percento a favore, 43,6 contro). Ma già la seconda volta scattò il plebiscito: 90,3 percento degli elettori per l’abrogazione, 9,7 per il mantenimento.

Da allora i partiti-padroni hanno continuato a incassare di anno in anno, sempre meglio e sempre di più, semplicemente chiamando “rimborso elettorale” il prelievo proibito dal referendum. Ma aver ignorato per un ventennio un responso tanto ampio e chiaro – il 90,3 percento degli elettori -, significa anche aver calpestato il più importante istituto di democrazia diretta contemplato dalla Costituzione. L’esito di un referendum è come un dettato per i legislatori: dovrebbero soltanto applicarlo.

Invece è avvenuto il contrario, con i legislatori che hanno rovesciato la volontà del popolo sovrano, “dettando” loro agli italiani il compito sul finanziamento mai abrogato e risorto addirittura più forte e magnanimo di prima.

Questo spiega perché, dei dodici quesiti proposti, quello contro i soldi pubblici ai partiti risulta il più popolare: perché svela al meglio il peggio di una politica che non cambia.

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