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Dopo le minacce di Sergio Marchionne sul futuro della produzione Fiat in Italia («se dobbiamo investire qui soldi guadagnati altrove dobbiamo essere sicuri di riuscire a governare le fabbriche») e la decisione della famiglia Riva di cessare tutte le attività degli impianti di produzione elettrosiderurgica (con la perdita immediata di 1.400 posti di lavoro, più tutti quelli nei settori direttamente od indirettamente collegati) perché il sequestro penale del Gip di Taranto «impedisce il normale ciclo di pagamenti aziendali e fa sì che non esistano più le condizioni operative ed economiche per la prosecuzione della normale attività», anche l’Abi (Associazione Bancaria Italiana) ha deciso di farsi avanti denunciando che, a causa dell’attuale recessione, «per le banche la caduta di redditività si conferma significativa e insostenibile», ritenendo pertanto necessaria «una riflessione approfondita finalizzata ad una complessiva revisione dei contratti di lavoro in vigore».

La disdetta preventiva del contratto
La disdetta, effettuata unilateralmente dieci mesi in anticipo rispetto alla naturale scadenza del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL), fatto che di per sé potrebbe già indicare una sorta di “nuovo corso” che rischia di compromettere gravemente le relazioni industriali della categoria, trova spiegazione nelle parole del vicepresidente dell’ABI, Francesco Micheli: «Il modello contrattuale non tiene più: ci sono troppi squilibri tra costi e ricavi che non crescono».
Parole pesanti sulle quali si infrange, sgretolandosi definitivamente, il mito, coniato dal ceto medio del dopoguerra e del boom economico, del posto fisso in banca come garanzia di prestigio e solidità, simbolo di scalata sociale e di agiatezza economica: non a caso, sino alla stagione delle grandi privatizzazioni degli anni Novanta, retribuzioni e condizioni contrattuali del settore creditizio costituivano la massima aspettativa per qualsiasi lavoratore dipendente.

Le ragioni dell’ABI
Il protrarsi della crisi economica nel nostro Bel Paese tratteggia effettivamente un settore finanziario col fiato corto, in significativo calo di redditività, non più in grado di conseguire ricavi adeguati a mantenere i requisiti patrimoniali richiesti dalle autorità di vigilanza: una situazione difficile ma pur sempre, ci teniamo a ricordarlo, conseguenza di precise scelte gestionali.
Il crescente e sempre più profondo impatto dell’innovazione tecnologica su qualsiasi operazione bancaria ha inoltre reso ridondante la rete di filiali e sportelli, cresciuta a dismisura nell’ultimo decennio in ossequio alla politica – praticata dai banchieri – della prossimità al territorio, determinando una contrazione dei ricavi medi per cliente di oltre il 40 per cento; considerato che in Italia circa il 60 per cento dei costi operativi è di tipo distributivo e che metà dei costi di distribuzione riguardano il personale, si giunge presto all’inevitabile conclusione: esuberi, una bomba sociale da maneggiare con estrema delicatezza.

Tagliare il personale, nonostante il report dell’EBA
Proviamo a fare due calcoli: se alla fisicità della filiale di una volta (media: 7 dipendenti) contrapponiamo l’agilità di una struttura con un massimo di 4-5 addetti, un “risparmio” di due dipendenti per agenzia può sembrare poca cosa, ma è quasi il 30 per cento in meno che, trasposto a livello di sistema, significa un potenziale di oltre 80mila esuberi rispetto ad un totale di 302mila bancari.
Da qui la necessità palesata dalla delegazione dei banchieri «di dover gestire gli addetti in eccedenza, in crescita progressiva anche in ragione della riduzione dei volumi e delle attività produttive», rendendo «Imprescindibile la ricerca di nuovi equilibri tra livello dei salari e occupazione sostenibile”: un vero e proprio“aut aut” tra revisioni salariali e difesa del posto di lavoro.
Il tutto nonostante i risultati contenuti nell’ultimo report dell’EBA (European Banking Authority) fissino la retribuzione media dei primi cento top manager bancari in Italia a 1,64 milioni di euro, quinti in Europa; primato invece per quanto concerne la sproporzione tra la busta paga di un dirigente apicale (si ricordi però che in Italia la grande maggioranza riceve emolumenti leggermente superiori a quelli di un Quadro) e quella di un impiegato che, secondo uno studio di Fiba/Cisl, è ben 42 volte più grande, senza contare che la parte variabile (bonus e benefit vari) dei banchieri di casa nostra vale solo il 47% della retribuzione totale, contro il 72% della Germania ed il 78% del Regno Unito.

Compensi sproporzionati per manager e presidenti
Compensi altissimi, imbarazzanti se rapportati a risultati di bilancio persino in deficit, per manager e presidenti che, negli ultimi anni, hanno fatto incetta di aiuti pubblici e che a breve potrebbero licenziare i circa 35mila over 55 (tramite pensionamento obbligatorio gestito da un apposito ente bilaterale) «per consentire al settore di continuare a svolgere efficacemente il proprio ruolo centrale per l’economia del Paese»: una combinazione a dir poco inquietante.
Come altrettanto inquietante è l’espandersi a macchia d’olio dei casi di mala finanza, sempre più frequenti nelle cronache dei giornali: dal più recente “nodo banche” della vicenda FonSai alle accuse di insider trading per Giuseppe Mussari, già presidente di Montepaschi e della stessa ABI, dimessosi da quest’ultima a seguito dell’avvio delle indagini, passando per Fabrizio Viola e Antonio Vigni, altri due grandi protagonisti dello scandalo, la probità della categoria dei banchieri è messa sempre più a repentaglio.

Auspichiamo pertanto non una mera revisione dei contratti di lavoro finalizzata alla cancellazione di ferie, welfare, orari di impiego, inquadramenti, contenimento dei costi e deregolamentazione dei salari dei nuovi assunti, ma soprattutto un’approfondita riflessione su ruoli, remunerazione e responsabilità di una classe dirigente non più coerente con alcun modo di fare banca: un percorso di ristrutturazione all’insegna della competenza e della professionalità che, accompagnato da opportuni investimenti, consenta un reale rinnovamento del settore ed una definitiva messa in sicurezza del sistema.

Unicredit, Intesa e Abi, ma quando pagheranno anche i top manager?

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