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Quel che sta capitando alla Giunta per le Elezioni del Senato può forse essere compreso se si va un po’ all’indietro nel tempo.

Mai come oggi infatti occorre ricordare che fin dall’inizio del mandato (a fine aprile scorso) Enrico Letta aveva definito “di servizio” il governo da lui presieduto.

I frutti della mancata pacificazione
La nascita del governo Letta era infatti considerata da alcuni quale necessità puramente straordinaria e temporanea, destinata ad essere rapidamente superata da una nuova contrapposizione Pd-Pdl secondo l’esperienza del bipolarismo cosiddetto muscolare.

All’opposto vi era invece chi riteneva che il governo fosse da considerare una sorta di prosecuzione del governo Monti, e quindi si basasse su “larghe intese” Pd-Pdl, con la significativa partecipazione di Scelta Civica, a testimonianza proprio della stretta continuità con l’esperienza Monti.

Governo di servizio dunque, ma orientato a durare un tempo non brevissimo (Letta parlò espressamente di 18 mesi), perché si riteneva che le condizioni economico-finanziarie dell’Italia richiedessero anche una adeguata riforma della Costituzione vigente.

Non dunque un governo di vere e proprie larghe intese sul modello della Grande Coalizione tedesca, perché risultava evidente che non vi era intesa politica e strategica proprio sul concetto fondamentale che il Pdl riteneva essenziale per il proprio sostegno: la cosiddetta “pacificazione”.

Ambiguità ed equivoci sul “governo di servizio”
Definire pertanto “di servizio” il governo Letta significava in qualche modo aderire a nessuna delle due ipotesi maggiori che hanno finito con il convivere con la definizione stessa di servizio, fino al momento conclusivo della decisione della Giunta per le Elezioni.

Risulta infatti del tutto evidente che non potrebbe sopravvivere neanche per 24 ore un governo di “larghe intese” (nel senso della Grande Coalizione) se uno dei due partiti maggiori che hanno concorso a dar vita all’esecutivo Letta assume una decisione radicalmente alternativa all’idea stessa della Grande Coalizione.

Risulta del pari del tutto inaccettabile qualunque discorso di riforme costituzionali che per loro natura richiedono tempo, per chi avesse ritenuto il governo destinato ad esaurire la propria azione solo nell’arco di pochi mesi.

L’ombra di Fanfani
Questa sostanziale ambiguità tra “necessità” e “larghe intese” ha finito infatti con il condizionare finora sia un punto fondamentale della strategia economica – quale quello dell’Imu – sia la singolare procedura costituzionale che il governo Letta ha posto in essere a partire dalla nomina dei cosiddetti “saggi” per giungere a profonde riforme costituzionali.

Quel che avviene nella Giunta per le Elezioni appare infatti più simile a quel che accadde molti anni fa allorché Aldo Moro trovò la definizione “convergenze parallele” per il governo Fanfani sostenuto contemporaneamente da liberali e socialisti.

In quel caso fu il programma stesso del governo a risultare determinante, mentre nessuno dei partiti che lo sosteneva riteneva di dover dar vita ad una maggioranza politica attorno a quell’esperienza.

Letta risucchiato dai partiti?
Di qui l’anomalia geometrica, ma non politica, delle “convergenze parallele”.
Esse infatti finirono con l’incarnare una scelta istituzionale necessaria per sostenere il governo quasi per dovere costituzionale, senza che vi fossero conseguenze politiche automatiche, anche in riferimento a questioni di particolare importanza.

Distinguere il governo Letta dagli obiettivi perseguiti dai partiti che lo hanno sin qui sostenuto risulta pertanto molto complicato, sia per chi opera nella logica della necessità temporalmente limitata, sia per chi ritiene di operare nella logica della “Grande Coalizione”.

Dalle larghe intese alle convergenze parallele?

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