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Aspirano a promuovere un movimento simile alla “Taxpayers Association” creata nella California di fine anni Settanta dall’imprenditore repubblicano Howard Jarvis e che culminò nella “Proposition 13”, il referendum finalizzato a introdurre nella Costituzione del “Golden State” un rigoroso limite al prelievo fiscale e ad abbatterne il peso fino ad allora abnorme.

Nell’Italia prigioniera del debito pubblico e della stagnazione recessiva, al terzo posto nel mondo per livello di pressione impositiva dopo Belgio e Grecia, Fermare il declino, Movimento 33% e Confederazione delle attività produttive italiane lanciano un’iniziativa per ridurre fortemente una spesa pubblica che oltrepassa la metà del Prodotto interno lordo e per portare la pressione fiscale al 33 per cento del reddito di cittadini e imprese. “Perché superare tale soglia è un furto”. Rivolgendosi ai produttori e lavoratori dipendenti del privato in un convegno organizzato a Roma sabato 28 settembre dal titolo “Per non morire di tasse”, le tre organizzazioni puntano a trasformare la propria base sociale in un’alleanza politica.

L’iniziativa, cui hanno partecipato Radicali e Partito liberale, si pone – spiega il responsabile del Lazio di Fd, Giovanni Bellofiore – in alternativa a “una destra che ha aumentato tasse e debito pubblico, una sinistra permeata di statalismo, un centro che ha accolto la vecchia politica, un M5S distruttivo e disposto a mantenere l’attuale legge elettorale”. E l’Italia del mercato “che paga e rischia di morire di tasse” viene illuminata dalla testimonianza di una commerciante toscana titolare da vent’anni di un’attività all’ingrosso, costretta a chiudere per il peso intollerabile dei tributi e non per carenza di domanda e capacità produttiva.

La proposta del Movimento 33 per cento

Le strategie per reperire risorse utili alla riduzione della pressione fiscale vengono illustrate da Tiziano Panconi, imprenditore ed esponente del Movimento 33%, che ricorda come nella Svizzera dove vive e lavora paga il 21 per cento di tributi ottenendo servizi pubblici impeccabili, “a fronte di un’Italia in cui gli artigiani arrivano a pagare il 70 per cento di tasse”. La strada da intraprendere, spiega, non consiste in tagli lineari indiscriminati bensì in una valutazione rigorosa delle uscite: “Il prezzo abnorme della TAV rispetto a Francia e Spagna e quello per l’acquisto di beni e farmaci per la sanità, il costo delle aziende partecipate e gli sprechi della macchina amministrativa. È da queste voci che si devono ricavare le fonti per abbassare le tasse e non per finanziare nuove spese come ha fatto Mario Monti con i 4 miliardi derivanti dalla spending review”. Un’esortazione a “preparare una rete civile attorno a 10 punti di governo dell’economia oltre le ideologie” viene da Mario Baccini, presidente della Federazione dei cristiano-popolari ed esponente del centrodestra. Partecipazione tanto più necessaria visto “il gran bazar di prodotti scaduti della politica italiana in cui i partiti concepiti dai padri costituenti si sono ridotti a comitati d’affari non democratici che drenano risorse dal finanziamento pubblico e feriscono la rappresentatività parlamentare”.

La ricetta degli imprenditori

Ma il bersaglio polemico dei reaganiani d’Italia non è soltanto la classe politica. Mettendo in luce un fossato interno al nostro capitalismo l’imprenditore Massimo Colomban, portavoce di ConfApri, punta il dito contro “un ceto dirigente e finanziario dedito alle scorribande predatorie sui gioielli produttivi di famiglia”. E propone ulteriori ricette per tagliare la montagna della spesa: mettere sul mercato aziende e patrimoni pubblici per 400 miliardi di euro, ridurre i 32 miliardi di pensioni, retribuzioni e liquidazioni d’oro dei manager di Stato – in Svizzera il dirigente non può guadagnare più di 12 volte rispetto al dipendente – rinegoziare il debito con i partner dell’Eurozona. “Solo così potremmo ripetere l’operazione compiuta da Reagan nel suo primo mandato, con il taglio immediato del 15-20 per cento delle tasse sui redditi che contro ogni aspettativa produsse un aumento delle entrate erariali”.

Le riserve critiche di Fermare il declino

Il ragionamento del portavoce di ConfApri incontra più di una perplessità in Michele Boldrin, l’economista liberista presidente di Fermare il declino. Il quale indica in 90 miliardi di euro i risparmi possibili sul fronte della spesa, a partire dalle amministrazioni regionali. Esortando ad allontanare “l’illusione populista propugnata da Silvio Berlusconi nel 1994”, lo studioso vuole rompere il clima di ostilità contro l’euro e i parametri finanziari dell’Ue. Ai suoi occhi “l’attenzione ferrea ai vincoli di bilancio incarnata da Angela Merkel, unita alle riforme strutturali realizzate in Germania 10 anni fa, sono l’unica strada per una crescita sana e non drogata come quella italiana degli anni Ottanta e quella invocata dai fautori di un allargamento dei margini di deficit e di un keynesismo alla giornata”. Analogo invito al realismo viene rivolto sul versante fiscale: “Gli obiettivi praticabili sono l’abbassamento di 5 punti IRPEF in 5 anni, la riduzione dell’IVA e l’abrogazione dell’IRAP. Nel medio termine è possibile ridurre i tributi del 6-7 per cento, non ricondurli al 33: ricetta shock immaginabile solo in una prospettiva ventennale, rischiosa e velleitaria nel presente”.

Nel solco delineato dal portavoce di Fermare il declino si inserisce il fisico Ezio Bussoletti: “È doveroso capovolgere una logica che ci riduce a sudditi e ha portato il governo di larghe intese a un incremento di 1 miliardo e 600 milioni di tasse annue”. Deriva di cui lo studioso porta tre esempi: “I 49 adempimenti fiscali che entro lunedì attendono i contribuenti, parte essenziale di scadenze amministrative che costano 22 miliardi di euro all’anno. L’abrogazione sostanziale e retroattiva della detrazione fiscale per le assicurazioni sulla vita, che tradisce lo Statuto dei diritti dei contribuenti. La previsione della service tax, le cui ragioni e finalità restano un mistero”.

La via di uscita per un nuovo Welfare

Una ricetta originale ed equilibrata per riattivare la crescita produttiva puntando sull’innovazione del Welfare viene presentata da Mario La Torre, economista e studioso di finanza etica. A suo parere il problema del regime fiscale italiano risiede nel cortocircuito fra riduzione delle tasse dirette e indirette sul reddito e i consumi e l’imposizione dei tributi sulle rendite per compensare le minori entrare. “Per fuoriuscire da questa tenaglia si pensa a cospicui interventi di riduzione e razionalizzazione della spesa pubblica, sulla cui efficacia in una cornice di depressione economica il FMI e premi Nobel come Norbert Stiglitz esprimono dubbi. Analoghi problemi si riscontrano nell’incremento della liquidità monetaria realizzato in Giappone da Shinzo Abe o in misura limitata dalla BCE, le cui risorse sono rimaste confinate nel circuito bancario”. È necessario compiere un salto di qualità: “Negoziare a livello Ue deroghe stabili al Patto di stabilità per investimenti mirati di lungo periodo e di rilevante impatto sociale agevolati da una fiscalità di vantaggio”.

Iva e non solo. Ecco la ricetta dei reaganiani d’Italia

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