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Aldous Huxley, l’intellettuale e filosofo inglese che fu anche insegnante a Eton di George Orwell, novant’anni fa nel suo “Il mondo nuovo” descriveva una nuova umanità dominata da un potere assoluto che per controllare le masse immetteva una mole di informazioni in circolazione talmente elevata, contraddittoria e confusa, da indurre nel cittadino l’apatia a qualunque genere di approfondimento, lettura o analisi.

Mentre l’allievo Orwell metteva in guardia l’umanità sul rischio della verità occultata attraverso la censura e il nascondimento, l’insegnante temeva che la realtà sarebbe stata strozzata dentro una montante marea di cacofonia e di irrilevanza.

Non era solo distopia, se guardiamo cosa sta accadendo attorno al tema dell’Ucraina e del sostegno in Occidente al suo sforzo di resistenza all’occupazione russa.

Facendo leva sul fatto che nelle democrazie liberali le opinioni pubbliche sono essenziali, a differenza dei regimi autocratici, la macchina della disinformazione targata Cremlino sul tema della guerra confida nell’ annacquamento dell’attenzione dei cittadini, e nella progressiva disaffezione alle ragioni della difesa di Kyiv. Un annacquamento che si alimenta anche con la quasi fisiologica propensione in larghi strati dell’opinione pubblica a desiderare che la guerra in Ucraina finisca il più rapidamente possibile, in molti casi anche a prescindere da come finisca, pur che si concluda.

Non è una novità. Nel corso della seconda guerra mondiale, negli stessi Stati Uniti d’America era viva la corrente isolazionista e “pacifista” all’inizio degli anni Quaranta, che consigliava Franklin Delano Roosevelt a non immischiarsi nella sostanza con una guerra che era solo un affare europeo, e ci volle la terribile sberla di Pearl Harbour per aprire gli occhi a questi segmenti della pubblica opinione americana sulla vera natura del totalitarismo e della sfida che i fascismi dell’Asse ponevano all’intero Occidente. Se pensiamo anche alla recente storia d’Italia, quando il governo D’Alema diede l’assenso della partecipazione italiana alla missione internazionale sulla Serbia, solo il 40% dell’opinione pubblica – secondo i sondaggi dell’epoca – concordava sull’azione dell’esecutivo.

Fidando su questo contesto e sulle caratteristiche di una opinione pubblica oggi indotta dal tramonto della stampa ad affinare la capacità di comprensione della complessità, da sostituirsi con le “stringhe” di poche battute su X e sui social, il gioco della propaganda russa mette in circolo una serie di tesi che sono inevitabilmente destinate ad alimentare il presupposto del disimpegno occidentale.

La guerra sboccherà in un conflitto nucleare; il conflitto è sorto per iniziativa della Nato e per responsabilità di Biden, che ha interessi diretti in Ucraina; dobbiamo smettere di inviare armi a Kyiv, perché questo allontana il processo di pace e di distensione; il massacro di Bucha è stata una messa in scena ucraina; i residenti di lingua russa del Donbass sono stati vittime di un genocidio: sono tutte tesi, false narrazioni sull’Ucraina, molte delle quali promosse dagli apparati di propaganda del Cremlino, che da qualche tempo – però, e qui sta il punto politico chiave di questi mesi – stanno entrando nel lessico, nella propaganda e nella piattaforma politica di alcuni partiti europei.

Certamente dei partiti più filo-russi, che si stanno attrezzando per le elezioni europee immaginando una campagna elettorale all’insegna di questo armamentario.

Certamente di partiti populisti, come si è visto ancora in queste settimane con la presa di posizione del leader dei 5 Stelle, Giuseppe Conte, che ha tenuto a far sapere urbi et orbi che se fosse lui al governo interromperebbe subito l’invio di armi in Ucraina (con evidenti contraddizioni nel Partito democratico, che infatti reagisce con un silenzio a metà strada tra l’imbarazzato e l’imbarazzante).

Ma il problema inizia a dilatarsi quando questa dinamica viene assunta da capi di Stato e di governo all’interno dell’Ue, come è accaduto nei giorni scorsi con la vittoria di Robert Fico in Slovacchia e come accade ormai da anni con l’atteggiamento filo russo di Viktor Orbán in Ungheria.

Tutto questo rimanda a due aspetti. Uno classico e uno innovativo. Il primo: come insegna Winston Churchill, è nell’ora più buia che bisogna sapere mantenere i nervi saldi, la necessaria lucidità, la freddezza delle decisioni che discende dalla convinzione di essere dalla parte di valori essenziali come quelli della libertà e della democrazia. E che la libertà della pubblica opinione, condizione fondamentale per l’alimentazione dei valori democratici, contempla anche la necessità di un dibattito sempre aperto sull’esigenza di far comprendere le ragioni – anche quelle complesse e difficili – delle scelte che si compiono. Il secondo: come ricordava Josè Ortega y Gasset (anch’egli in epoca di grandi totalitarismi), l’uomo-massa vive di una cultura di luoghi comuni, di pregiudizi, di parvenza che sostituisce la realtà, di falsa coscienza. Fu questa dimensione a portare cent’anni fa le masse a essere acquiescenti verso le dinamiche totalitarie del fascismo e del comunismo, e questa lezione a un secolo di distanza ci dice ancora molto dei caratteri della società contemporanea.

Di conseguenza, nell’era digitale che profila ogni singolo individuo e costruisce messaggi diretti a gruppi specifici di utenti spesso basa sulle fake news, il tema della relazione tra tenuta delle relazioni democratiche e accelerazione e trasformazione del ciclo dell’informazione diventa una questione cruciale, da affrontare prima che diventi destabilizzante per la libertà di ciascuno di noi e la tenuta delle nostre affannate democrazie.

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