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Forse non prevarrà la linea della “Repubblica”, di Matteo Renzi e dei seguaci di Luca Cordero di Montezemolo (più vocianti fazioni grilline e vendoliane nonché varie tifoserie internazionali) che cerca di mandare all’aria il governo di emergenza e unità nazionale. Però l’affondo sul caso kazako è stato pesante ed è utile, in questo senso, analizzarne le dinamiche.

Il senso dello Stato

Pare di capire che l’accelerazione del fronte per la crisi di governo sia stata determinata dalla sensazione di come nello Stato, anche in settori decisivi della magistratura, stesse prevalendo un certo senso di responsabilità nazionale e che dunque bisognasse fare in fretta utilizzando quel che c’era a disposizione (sia pur abbastanza incasinato) per tentare di buttar giù subito l’esecutivo Letta.

Le smanie renziane

La situazione è stata in bilico. Da una parte si è marciati decisi per la crisi (dentro questa linea si sono collocate incredibili affermazioni renziane su “quelli che pensano solo al proprio posto”, proprio mentre si anteponeva l’ambizione a divenire premier a qualsiasi disegno politico razionalmente definito) con auspicate conseguenti elezioni drammatiche e una prospettiva di sostanziale subalternità a sistemi di influenza straniera (si è arrivati a proclamare apertamente – il che tradisce anche un certo retroscena del caso kazako – di volere vendere l’Eni).

I fini di Pdl e Pd

Dall’altra tra Pd e Pdl ci si è molto arrabattati, indicando però l’unica prospettiva dignitosamente democratica in campo: l’esigenza di una riforma dello Stato – come base anche per una “pacificazione”- che consentisse la sovranità nazionale possibile fondata su una sovranità popolare pur regolata e dunque limitata ma netta.

Gli arrabattatori

La meta razionale ma incerta degli “arrabattatori” non sarà però realisticamente raggiungibile se chi la persegue non sarà fino in fondo consapevole della storia che c’è dietro agli eventi di oggi, se non si renderà conto come lo sfaldamento dello Stato evidente anche nel pasticcio kazako (e che ha avuto peraltro precedentemente la più devastante espressione nel caso – ancora non risolto- dei due marò arrestati in India) non sia frutto al fondo solo di singoli errori (che naturalmente ci sono) ma di un indebolimento strutturale della politica nel dopo ’92 simmetrico allo svilupparsi di un potere feudale delle procure che non ha eguali in una democrazia moderna.

I perenni sabotatori

Una delle solite erinni della “Repubblica” denuncia l’odore di marcio compromesso che emana dalla gestione del pasticcio kazako ed evoca per analogia casi del già ministro degli Interni Nicola Mancino. Proprio da una ricostruzione tal fatta emerge il sapore marcio del tradimento della verità che i sabotatori di qualsiasi volontà di responsabilità e pacificazione nazionale perseguono.

Obiettivi: Napolitano e Violante

Tutte le analisi dei “sabotatori” sul cosiddetto caso trattativa con la mafia – largamente usato, per esempio contro Giorgio Napolitano e Luciano Violante, per intimidire qualsiasi apertura pacificatrice – hanno la caratteristica di rimuovere dalla scena due dei protagonisti fondamentali di quella stagione: Oscar Luigi Scalfaro che fu il vero dominus degli eventi del 1993 e il principale destabilizzatore della sovranità popolare nel 1994, e Carlo Azeglio Ciampi, che non solo rivendicò per quello stesso 1993 un “potevo non sapere” in confronto al quale le attuali responsabilità di Alfano sono microscopiche, ma è anche il principale teorizzatore dell’idea di un vincolo esterno che costringesse a riformare l’Italia e invece ne ha ridotto lo Stato nelle attuali condizioni.

Il caso Alfano tra sabotatori e responsabilità nazionale

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