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Come sempre più spesso accade, laddove la classe politica italiana si dimostra inadeguata o svogliata, è la magistratura che si fa carico di decisioni anche importanti e, talvolta, epocali, com’è successo due giorni fa a Taranto. Città nella quale il gip del  Tribunale Patrizia Todisco ha convalidato il sequestro “per equivalente” di beni per 8,1 miliardi di euro ai Riva, signori dell’acciaio italiano e proprietari dell’Ilva. Un provvedimento di un’ampiezza assolutamente fuori dalla norma – due volte abbondanti l’Imu sulla prima casa – che toglie il controllo del patrimonio (che ha per holding industriale la Riva Fire) alla famiglia bergamasca e apre un capitolo tutto nuovo sul futuro di questo importante gruppo italiano. Non è scritta ancora l’ultima parola, perchè i Riva (Emilio, con i figli Nicola e Claudio), che risultano indagati tra 16 persone in totale, provvederanno certamente a fare ricorso avverso questo provvedimento: non è detto che sia confermato dal Riesame e quindi, definitivamente, dalla Cassazione. Il sequestro è “funzionale alla confisca”, come scrive il gip nel suo provvedimento “monstre”. Ovvero all’esproprio di uno dei più importanti patrimoni industriali d’Italia.

Il punto non è tanto la liceità o meno del provvedimento, su cui si esprimeranno altre corti, ma la necessità che a sbloccare una fase di stallo che si faceva via viapiù logorante sia stata, come spesso succede, la magistratura. La quale ha preso il coraggio mancante ad una politica locale e nazionale che si è dimostrata assolutamente incapace di risolvere il problema del futuro dell’Ilva. Ovvero del suo risanamento ambientale affinchè possa tornare ad essere il motore dell’acciaio italiano senza causare gli enormi danni alla salute che ha prodotto finora. Non si tratta di una questione semplice, è chiaro. I soldi in ballo sono molti, miliardi di euro. Ma altrettanti, il sequestro lo dimostra, sono i soldi guadagnati dal gruppo Riva Fire in questi anni, risparmiando sul rispetto della salute e dell’ambiente. Non solo: il sequestro di 1,2 miliari di euro rintracciati in conti dell’isola offshore di Jersey (canale della Manica) alzano il dubbio che sui tanti guadagni il gruppo non abbia neanche pagato le tasse. Doppia beffa allo stato.

C’è bisogno di un intervento che parta dal Consiglio dei Ministri e scenda fino agli organi regionali e comunali, ciascuno per le proprie competenze (e capacità). Ma che si faccia in fretta e non si continui a cercare soluzioni che finiscono per non risolvere molto, come la certificazione Aia rilasciata dal ministro Corrado Clini (governo Monti) per cercare di sbloccare la produzione nonostante i rilievi della magistratura. Scrive il gip Todisco a proposito : “Il legislatore ha inteso rimettere l’Ilva in possesso degli impianti sottoposti a sequestro preventivo ed assicurarle la prosecuzione dell’attività produttiva senza esigere dalla stessa la presentazione di adeguate garanzie finanziarie a sostegno sia del piano di investimenti previsti dall’Aia, sia del pagamento di eventuali sanzioni amministrative e pecuniarie”. Ovvero senza mettere sul tavolo i soldi, molti dei quali finiti in paradisi fiscali come si è visto.

Ecco, ora che la magistratura si è mossa nell’unico senso possibile per ridare dignità alle norme e alla salute dei tarantini, che la politica prenda coraggio e dia corpo a questo sequestro, anche arrivando alla confisca dell’Ilva finalizzata alla sua bonifica. Se è lo stato con la fiscalità generale a dover pagare la bonifica, che i guadagni dei prossimi anni siano pubblici. Twitter @alfredofaieta

 

P.S Il cda dell’Ilva, tra cui il neo amministratore delegato Enrico Bondi, si è dimesso dopo il provvedimento. Il governo si muova prima che la situazione si degradi ulteriormente.

 

 Lungomare Italia

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